|

Questo articolo è comparso sull’Avvenire il 18 giugno
rn
rnIl recente documento approvato a maggioranza dagli Ordini dei medici, con una spaccatura che lascia il segno, fa trasparire una critica di fondo al disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) all’esame della Camera su cui occorre fare chiarezza.
rn
rn

Il documento assume come postulato l’esaustività del Codice deontologico rispetto alle decisioni sulla salute, riconducendole nell’ambito della cosiddetta ‘alleanza terapeutica’ tra medico e paziente. In questo orizzonte entrerebbero anche le dichiarazioni anticipate, che si collocherebbero automaticamente nella relazione di cura e nei ‘diritti individuali’ protetti dalla nostra Costituzione. Con la conseguenza che il diritto (cioè il legislatore) dovrebbe farsi ‘mite’ e non entrare più di tanto nell’autonomia decisionale del medico e del paziente.

Si tratta, in realtà, di un ragionamento viziato in partenza. La vicenda delle dichiarazioni anticipate, infatti, non sempre si iscrive nell’ambito di un’alleanza terapeutica, intesa come relazione di cura (così non è stato proprio per il caso Englaro). Nelle malattie cronico-degenerative si è al cospetto di una relazione tra medico e paziente e, dunque, le dichiarazioni di quest’ultimo sono legate a una patologia che si sviluppa gradualmente. Ed è legittimo che si collochino entro un’alleanza terapeutica.
Non altrettanto si può dire invece per le dichiarazioni rese al di fuori di una condizione di malattia, in cui un cittadino in piena salute intenda esprimere desideri su eventuali trattamenti futuri. In questa situazione il medico può solo fornire informazioni medico-cliniche e raccogliere le preferenze sui possibili trattamenti. L’autonomia decisionale del cittadino – non ancora paziente – su future ed eventuali cure si realizza piuttosto nel quadro dei diritti e dei doveri in una comunità organizzata, e non dunque nell’ottica dei ‘diritti individuali’ nella relazione medico-paziente.
Emblematico è il richiamo della nostra Carta costituzionale, che all’articolo 32 tutela la salute sia come fondamentale diritto dell’individuo sia come interesse della collettività. La riduzione della libertà del paziente dentro lo schema dei diritti individuali nella relazione medico­paziente finisce, invece, per confliggere con i valori di fondo del nostro sistema giuridico-costituzionale, che distingue con saggezza tra scelte del singolo e scelte dell’ordinamento: dove c’è un giudizio negativo del legislatore, l’azione del singolo non potrà trasformarsi in pretesa giuridica. Se dunque una ‘mitezza’ del diritto può essere accettabile nell’incontro tra le sfere di autonomia del paziente e del medico curante, non lo è più quando l’autonomia del singolo si misura direttamente con l’intera comunità e i suoi valori.
In quest’ottica il disegno di legge approvato dal Senato esclude che la volontà del paziente sia l’unico fattore cui ricondurre la legittimità dell’intervento medico. Ma non solo: il ddl Calabrò esclude anche che una dichiarazione di rifiuto del sostentamento (la nutrizione assistita) possa essere inserita all’interno di una Dat. Se così fosse, infatti, ne legittimerebbe l’attuazione e violerebbe sul nascere la sfera di autonomia e di responsabilità propria del medico.
Del resto, che nel documento degli Ordini non ci sia adeguata consapevolezza dei confini giuridici del ruolo del medico emerge con una certa ingenuità nell’indebita equiparazione tra funzioni del medico e del fiduciario: si dice che entrambe sono volte a perseguire il «migliore interesse del paziente», ma questa espressione assume significati diversi nell’esercizio dei due ruoli. È evidente che si tratta di due posizioni giuridicamente assai diverse: il fiduciario deve attuare con rigore la volontà del cittadino-dichiarante, mentre il medico deve garantire la salute e la vita del paziente. Anche questa imprecisione consegue a quel malinteso ruolo del diritto, declassato da elemento fondativo ‘forte’ a strumento ‘debole’ di ratifica della volontà autodeterministica dell’individuo. Attenzione, però: storicamente questo paradigma ha finito per rendere i deboli ancora più indifesi, e i malati ancora più fragili.

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!
Altri articoli in

Scienza e biopolitica
Alberto Gambino

Non si può risarcire il diritto a non nascere

Alberto Gambino

Legge 40 e creatività europea

Alessandro Giuliani

Il Rigore della Scienza. Viaggio nei deserti dell’Ovest

Redazione

Divieto di fecondazione eterologa: la Corte deciderà il 22 maggio

Alberto Gambino

Caso S.Filippo Neri e la crioconservazione degli embrioni “abbandonati”

Redazione

Aspettare o incamminarsi? La difficile convivenza tra paradigmi scientifici

Redazione

L’Economia (complessa) contro la scienza triste. Appunti per il bene comune

Carlo Modonesi

Il fantasma scientifico delle razze ai tempi della crisi

Ignazio Licata

Particella di Dio o Bosone di Goldstone?

Redazione

Il sonno (o il sogno?) della ragione produce mostri

Redazione

Il no alla brevettabilità di medicinali da staminali embrionali. Parla l’esperto Andrea Stazi

Redazione

Scienza. La scoperta sui neutrini

Redazione

L’età per procreare e i diritti del bambino

Alberto Gambino

Le mamme nonne e il diritto all’egoismo

Fabio Macioce

Stato etico, o pazienti irragionevoli? L’età per procreare

Alessandro Giuliani

Mal d’amore. Pillole magiche e medicina debole

Redazione

Biotestamento: il rischio di abbandono dei malati

Redazione

Brevettabilità dei geni umani

Alessandro Giuliani

Caligola e le biotecnologie

Andrea Stazi

Sequenza del Dna, la ricerca si scontra sul brevetto*

Alberto Gambino

Biotestamento. Obiezioni alle tesi di Rodotà, Zagrebelski e Saviano

Alberto Gambino

Scelta di fine vita. L’amministratore di sostegno non è un fiduciario

Alessandro Giuliani

Il “lato B” del progresso. La lezione di Enrico Fermi

Alessandro Giuliani

Finanziamento alla ricerca. Sfatiamo alcuni miti

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?