Il codice deontologico dei medici sicuramente dà risposta negativa ai comportamenti tenuti sia nel caso Welby, dove il medico si è fatto strumento di attuazione della volontà del paziente di porre fine alla sua esistenza, sia nel caso Englaro dove il padre-tutore chiede che un medico stacchi il sondino di sostentamento della figlia.
In entrambe le vicende, tuttavia, la giurisprudenza – di merito, nel caso Welby, e di legittimità nel caso Englaro – hanno consentito tali situazioni.
Per via giurisprudenziale sono stati a riguardo introdotti due istituti giuridici che sintetizzo così: l’esimente dell’adempimento del dovere di attuare un c.d. diritto di autodeterminazione del paziente, che esclude la punibilità nel reato di omicidio del consenziente (caso Welby); il testamento biologico presunto, che, in caso di irreversibilità dello stato vegetativo del paziente, legittima il tutore a porre in essere l’interruzione dell’alimentazione artificiale (caso Englaro).
Che fare dinnanzi a questo progressivo scivolamento della libertà di rifiuto di intervento sul proprio corpo, trasformato dalla giurisprudenza in “diritto di autodeterminazione”, attuabile da terzi (caso Welby), e, in caso di irreversibilità dello stato vegetativo del paziente, addirittura desumibile da testimonianze e presunzioni (caso Englaro)?
Certamente la via maestra è il ravvedimento dei giudici di legittimità, che tornando sui propri passi, ripristinino l’interpretazione corretta della libertà di consenso all’intervento, che è prerogativa personalissima, non delegabile a terzi, non esercitabile se non dal suo titolare nell’imminenza dell’intervento medico. E a questo esito sono chiamati a prodigarsi tutti quelli che hanno a cuore che il nostro ordinamento continui a porre al centro la libertà e l’integrità della persona con la sua soggettività giuridica, non trasformandola in un oggetto disponibile, come se fosse una cosa.
Nel breve periodo, tuttavia, la Cassazione verrà chiamata non già a rivedere le sue posizioni – essendo in questo senso necessario un altro drammatico caso che arrivi, di grado in grado, fino ai giudici supremi – ma a verificare che la Corte d’Appello di Milano abbia applicato correttamente i pur inaccettabili principi descritti (irreversibilità della condizione vegetativa del paziente, ricostruzione per presunzioni della sua volontà). È questo il senso del ricorso della Procura avverso il decreto di autorizzazione del distacco del sondino da parte dei giudici d’Appello. E dalle notizie che giungono sembra che sia soprattutto il tema dell’irreversibilità dello stato vegetativo ad essere sub iudice.
Quale che sia la decisione della Cassazione su questo punto, rimarrà comunque intatta l’impostazione giurisprudenziale data alla vicenda che – ripeto – è riassumibile nell’aver i giudici di legittimità introdotto per sentenza la figura del testamento biologico presunto, che nel caso Englaro opera come esimente del reato di omicidio (del consenziente?) e che probabilmente troverà proseliti in altri giudizi di merito. A questo punto si tratta di decidere se aspettare una prossima e lontana Cassazione che cambi orientamento, oppure considerare l’intervento del legislatore, se non addirittura quello della Corte costituzionale che potrebbe comunque essere investita nel corso di un altro procedimento della questione di legittimità costituzionale di norme del codice civile – come quelle sulla rappresentanza e sulla tutela degli incapaci – ove interpretate in contrasto con il diritto alla vita.
Come potrebbe intervenire, dunque, il legislatore?
Non certamente con una normativa sul testamento biologico, espressione paradossale e ambigua, come se d’un tratto si potesse disporre per testamento di un bene giuridicamente indisponibile, il bios, la vita appunto.
Un intervento legislativo secco e lineare (con normativa ad hoc oppure inserito in un provvedimento più ampio sull’alleanza medico-paziente o sulla tutela della vita umana in sofferenza) dovrebbe riaffermare i tre principi disattesi dai giudici di Cassazione, e cioè che: 1) il consenso informato riguarda solo le persone consapevoli e coscienti, in grado di esprimerlo ed esercitarlo personalmente; 2) tutto ciò che dovesse essere stato espresso in precedenza non è vincolante per il medico e non può in alcun modo riguardare il rifiuto di terapie, di trattamenti salvavita, di alimentazione e idratazione anche artificiali; 3) nessuno può farsi esecutore della volontà del paziente di interrompere un trattamento vitale. Così dando stabilità normativa all’unica ipotesi tollerata dalla Costituzione italiana e cioè che il rifiuto di un intervento sul proprio corpo sia esercitato personalmente e in piena autonomia rispetto all’attivazione e alla persistenza temporale.
A questo punto anche i magistrati più spregiudicati e creativi non potranno che tornare ad applicare il principio che sulla vita umana i giudici non decidono.