Come è noto, il rapporto di Harvard pose come criterio definitorio quello di morte cerebrale, superando il precedente concetto di morte cardiaca; ma il cammino, se si guarda alla storia della medicina, è stato infinitamente più lungo, e segnato dai progressi delle tecnologie e delle conoscenze scientifiche. Si è difatti passati da un criterio meramente anatomico (la necrosi cellulare o morte del corpo), al criterio dell’arresto delle funzioni respiratorie prima, e cardiache poi, fino a collocare nel cervello il luogo privilegiato per l’accertamento della morte. E ciò perché, naturalmente, potendo supplire all’assenza di tali funzioni vitali, riattivando la funzionalità cardiaca e ventilando un paziente, la scienza medica ha dovuto considerare altri aspetti della funzionalità del corpo umano, e altri criteri per l’accertamento della morte.
Ma lo stesso criterio di morte cerebrale non è univoco: v’è infatti chi parla di morte tronco-encefalica, sostenendo che seppure le funzioni corticali e della parte superiore del cervello possono continuare anche per alcuni giorni, la cessazione della funzionalità tronco-encefalica sarebbe di per sé garanzia della morte dell’individuo.
Tuttavia, il dibattito più acceso riguarda la cosiddetta morte corticale, ovvero la perdita delle funzioni della corteccia superiore: si tratta insomma della perdita delle funzioni “superiori”, tipiche dell’essere umano, quali la capacità di coscienza e autocoscienza, l’elaborazione razionale, la memoria e l’interazione sociale, permanendo integre le funzioni omeostatiche e vegetative (respirazione, circolazione sanguigna). E’ il caso, come si vede, dei soggetti in coma vegetativo permanente, di quei casi cioè in cui si ha la morte della mente ma non dell’organismo.
Diverse critiche possono essere rivolte a tale impostazione; è infatti generalmente superata l’idea che la “coscienza” si possa localizzare integralmente nella corteccia cerebrale, ritenendo che la capacità cognitiva sia il risultato di interazioni fra tronco e corteccia; la perdita di coscienza non è peraltro un dato necessariamente irreversibile, né istantaneo: l’irreversibilità della perdita della funzionalità mentale è progressiva e difficilmente accertabile, e come detto non esiste la possibilità di escludere con assoluta certezza che il cervello non recuperi totalmente o parzialmente la funzionalità perduta (il caso, rarissimo ma non inesistente, dei risvegli); infine, tale impostazione tende pericolosamente ad allargare la definizione di morte a soggetti con gravi anomalie psichiche.
Ad oggi, e tale è il portato del rapporto di rapporto di Harvard, l’unico criterio di accertamento della morte è quello della morte cerebrale totale, ovvero della cessazione totale e irreversibile di ogni attività del cervello (emisferi, corteccia e tronco-encefalo), tale da disgregare l’unità dell’organismo umano. E’ accettabile tale criterio?
Posto che, come sempre, tutto è discutibile e tutto è definibile con maggior precisione e adeguatezza, il criterio della morte cerebrale sembra essere messo in dubbio sia sul piano clinico, sia su quello filosofico; dal punto di vista clinico, nuove ricerche stanno facendo emergere il sospetto che la morte del cervello non provochi, come si riteneva sinora, la perdita di unità dell’organismo. Sul piano teorico, poi, da più parti si tende a far notare come l’aver accettato senza riserve il criterio della morte cerebrale ha condotto ad una pericolosa identificazione della persona con le sue attività cerebrali; il che, come fa notare maliziosamente Peter Singer, dovrebbe portare i cattolici a ritenere non persone i neonati anencefalici, privi per l’appunto delle funzioni cerebrali.
E in effetti – lo ricorda Scaraffia – nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzato la certificazione della morte cerebrale, stanti le riserve con cui tale criterio è stato accettato dalla dottrina cattolica.
Va però compreso che il criterio della morte cerebrale, seppur – come detto – certamente superabile e perfezionabile, si fonda su un assunto filosofico che andrebbe invece conservato: ovvero sull’idea che il tutto è più della somma delle parti. Il soggetto, insomma, è altro dalle sue funzioni, per quanto importanti e significative esse siano, e per quanto esse rappresentino parti essenziali della soggettività (si pensi all’autocoscienza, alla razionalità, alla capacità di relazione); perché il soggetto è il presupposto, e non la conseguenza, delle sue funzioni, e perché seppure esse lo costituiscono come tale non possono esaurirlo.
E’ questo, in fondo, che distingue il criterio della morte corticale da quello della morte cerebrale: ritenere, o meno, che le funzioni tipiche della soggettività esauriscano la sua essenza, e che mancando le prime non può darsi neppure la seconda. Chi ritiene che la morte cerebrale totale sia l’unico criterio accettabile, sinora, per la definizione di morte, lo fa perché ritiene che il corpo umano sia un tutto unitario, un unità che non si riduce alla somma delle sue parti, pur se da esse è costituita. In altri termini, lo fa perché ritiene che la persona e la sua dignità non siano localizzabili in nessuna funzione specifica dell’essere umano, per quanto importante essa sia, né in un insieme particolare di funzioni, ma che dette funzioni siano solo un attributo di una sostanza che le precede e le trascende.
Perciò, è certamente possibile discutere su altri criteri di accertamento della morte, e superare le difficoltà e le manchevolezze che lo stesso criterio di morte cerebrale totale presenta; purché si tenga presente che, ancora una volta, la questione non è esclusivamente medico scientifica, ma filosofica, e che si tratta, come sempre, di tornare a discutere su un’idea di uomo, sulla sua essenza, sul rapporto fra sostanza e attributi, sulla dignità personale e ciò che la determina. Non illudendosi che la tecnologia possa di per sé dare risposte a domande che, con tutta evidenza, non le competono.