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Le osservazioni da economista “cinico”, ma direi più correttamente “acuto” di Leonardo Becchetti, stimolano alcune riflessioni in chiave giuridica (ma non solo) sulla legge 194.

Il dibattito, che si è riaperto, come peraltro ciclicamente avviene ormai da quindici anni a questa parte, fa intendere come la coscienza collettiva, incarnata in alcune personalità pubbliche, non riesca ad acquietarsi dinnanzi ad una legge che, da qualunque parte la si guardi, consente “legittimamente” di sopprimere vite umane.
C’è una prima questione che credo vada subito affrontata: la legge 194, da un punto di vista giuridico-formale, non prevede un diritto all’aborto. Non c’è scritto, in altri termini, che l’interruzione della gravidanza sia un diritto liberamente esercitabile. L’istituto giuridico adottato dalla legge è, piuttosto, quello del c.d. “stato di necessità”, dove, cioè dinnanzi a due interessi configgenti – quello alla vita del nascituro e quello all’integrità fisica, ma anche psichica, della madre, si consente di pregiudicare il primo. Ma proprio perché si tratta di un bilanciamento legato ad una situazione estrema, occorre seguire una procedura di garanzia. Una procedura cioè volta a verificare che effettivamente si sia davanti ad un contrasto irreversibile tra i due interessi appena descritti. Ora, tuttavia, l’innesto nella legge italiana (come pur in altre leggi europee) della figura della lesione alla salute psichica, porta, nella prassi applicativa della legge, che l’arbitro insindacabile della vicenda finisca per essere il titolare dell’interesse stesso, in quanto si sostiene che nessun altro, se non la madre, sia in grado di giudicare quando e come una gravidanza può recargli un danno psichico. Il che è tutto da dimostrare, considerata, tra l’altro, l’enorme dose di emotività che accompagna decisioni così dolorose.
La valutazione non è dunque oggettiva, ma diviene soggettiva e insuscettibile di valutazione da parte di terzi. Ed essendo del tutto evanescente la definizione di lesione alla salute psichica (molto efficace l’esempio del guscio di tartaruga fatto da Becchetti, la cui importazione è vietata, ma che potrei ritenerlo fondamentale per il mio benessere psichico), si finisce per chiudere gli occhi davanti ad una casistica che le statistiche dimostrano assai rilevante, relativa al fatto che la legge 194 viene usata come mezzo di contraccezione, dunque, al fine di eliminare gravidanze indesiderate, come se queste fossero di per sé pregiudizievoli per la salute psichica della donna. In buona sostanza, se giuridicamente non esiste nella legge un diritto all’aborto, la prassi applicativa induce a privilegiare una libertà all’aborto pressoché assoluta, salvo i limiti temporali di cui tra poco si dirà. E questo, ritengo, sia il primo nodo che giuristi ed operatori del diritto dovrebbero, con lo strumento della “laica” ragione, tornare ad affrontare.
 
Sempre nel dibattito di questi giorni si sostiene poi che la legge sull’aborto andrebbe aggiornata tenendo conto dell’avvento di pratiche abortive, come la pillola RU-486, che sfuggono per loro natura alle procedure di cui alla legge 194.
In effetti la legge prevede precise forme di prevenzione e di dissuasione (peraltro ben poco attuate) dall’interruzione volontaria della gravidanza. In particolare l’intervento abortivo va preceduto dall’informativa e dal colloquio dissuasivo previsti dall’art. 5 e deve essere eseguito in ospedale fino al momento della soppressione ed espulsione del nascituro.
L’attuale procedura di somministrazione di pillole abortive implica, invece, che al primo giorno di ricovero vengano somministrate le pillole, quindi nel giro di tre giorni la donna viene dimessa (sarebbe peraltro giuridicamente molto problematico trattenerla in presenza di una sua richiesta espressa di dimissione). Successivamente, dopo due settimane, la donna torna in ospedale per verificare se l’aborto è avvenuto. Oltre che seri rischi per la salute della donna, per eventuali gravi emorragie senza assistenza ospedaliera, siffatta procedura provoca un palese aggiramento della legge 194, che, come detto, richiede che la pratica abortiva venga interamente eseguita in ospedale. Ma al di là di tale rilievo ritengo che la procedura della pillola abortiva oggi in Italia è esclusa proprio dall’art. 15 della legge 194, che viene spesso richiamato a sproposito proprio per legittimare tale pratica. Infatti l’articolo 15 dispone che le Regioni promuovono l’aggiornamento sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza. Proprio la contraddittorietà dell’attuale uso della pillola abortiva, in alcuni casi come sperimentazione, in altri casi come importazione, dimostra inequivocabilmente che non ci troviamo affatto davanti ad una tecnica più rispettosa della salute e meno rischiosa, anzi la prassi della sperimentazione starebbe proprio a dimostrare che non vi è alcuna certezza. Ma proprio la sperimentazione, ove fosse intesa sulla donna, e tale è la procedura della pillola abortiva, è vietata dalla legge.
La legge 194 non consente certo che per finalità di “aggiornamento” del personale sanitario si utilizzino cavie umane, come in questo caso è sicuramente il nascituro, ma anche la donna, come dimostrano le donne morte in varie parti del mondo in conseguenza dell’uso della RU-486.
Se, come credo, tale è il quadro, un “aggiornamento” in questa direzione della legge finirebbe inevitabilmente per vanificare i principi normativi, su cui si incardina la legge 194, non più come rimedio estremo (pur con le deviazioni della prassi prima messe in luce), ma come vero e proprio diritto ad abortire, senza alcun controllo e garanzie. E questo ritengo sia un secondo punto su cui riflettere e su cui mi paiono davvero efficaci gli spunti lanciati da Fabio Macioce sulle pagine web di Benecomune.net.
 
C’è poi una terza riflessione molto delicata: il feto oggi, grazie alla scienza e alla tecnologia, può continuare a vivere da solo anche entro il limite temporale in cui è in taluni casi (malformazioni) consentito l’aborto (24 settimane); dunque per evitare veri e propri casi di infanticidio, dove si finisce per ammazzare il feto vivo dopo aver praticato l’interruzione, si suggerisce di restringere il periodo abortivo a 20 settimane. Ora, il ragionamento è senz’altro corretto, nell’ottica di una riduzione del danno e di evitare che un maggior numero di vite umane vengano soppresse. Segnalo però un pericolo. La battaglia referendaria a favore della legge sulla fecondazione assistita, fondata, secondo il criterio del male minore, sulla riduzione dei rischi di eliminazione di embrioni e ad impedire fecondazioni eterologhe, ha finito per far considerare quella legge anche da chi si è impegnato nel difenderla come una buona legge. Ora proprio i casi, in cui alcuni giudici di merito (da ultimo il Tribunale di Firenze), hanno voluto reinterpretare (ma in realtà disattendere) la legge 40 alla luce della legge 194, consentendo che possano selezionarsi e, dunque, sopprimersi alcuni embrioni proprio nell’ottica di quel pregiudizio alla salute psichica della donna, in realtà mette in luce in modo evidente come anche la legge 40 abbia un limite enorme: con essa si consente di creare la vita in provetta, sradicandola dall’alveo naturale dell’utero della madre, così creando un embrione “solitario” e di fatto impossibilitato a vivere senza una donna che lo accolga. Così si è finito per reificare (rendere sostanzialmente una cosa) ciò che cosa non è per sua natura, un embrione di essere umano appunto. E per quanto la legge 40 si sforzi di definirlo “soggetto giuridico”, l’embrione, una volta disgiunto dal corpo della donna, diventa un’entità quasi invisibile rinchiusa in una provetta, che finisce per essere percepita come qualcosa di diverso da un soggetto che diverrà bambino. L’aver consentito che la vita possa prodursi in provetta finisce per mettere a repentaglio la vita stessa e, dunque, una legge che legittima tale situazione non può certo definirsi “buona”.
 

rnQuesto rilievo, dunque, non si pone certamente l’obiettivo di criticare chi chiede un termine minore entro il quale consentire l’interruzione della gravidanza. Ma può essere utile per non sviare il dibattito dal vero punto nevralgico della legge 194: che il bilanciamento tra interesse alla vita del nascituro e interesse psichico della madre è in realtà “sbilanciato”, in quanto si tratta, da un lato, di beni non equiparabili, e dall’altro perché, nella prassi applicativa, il bilanciamento viene effettuato dal titolare di uno dei due interessi in gioco, che, peraltro incarna, se si ha l’onestà intellettuale di riconoscerlo, proprio l’interesse di rango inferiore.

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