La dolorosa vicenda di Eluana Englaro, che sembra ormai avviarsi alla sua conclusione, sollecita una riflessione serena sul testamento biologico e lascia aperti i dubbi sul confine fra cura della persona e vero e proprio trattamento medico.

La legge definisce in modo chiaro il confine fra la vita e la morte. Nel 1993 è stato introdotto anche nel nostro ordinamento il criterio secondo il quale si muore non quando il cuore non batte più, ma quando cessa ogni attività sia della corteccia, dalla quale dipendono coscienza, intelligenza, capacità di relazione e linguaggio, sia del tronco encefalico, che controlla la mera integrazione delle funzioni vitali di base dell’organismo e può restare non compromesso a tempo indeterminato negli stati che per questo vengono definiti “vegetativi persistenti”. In questi ultimi sedici anni Eluana è stata viva, sebbene in una condizione nella quale le era ormai impossibile non solo esprimersi in modo autenticamente umano, ma anche provare sensazioni, interagire in qualche modo con l’ambiente che la circondava. Di conseguenza, la legittimità in punto di diritto della decisione di interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiali presupponeva necessariamente due passaggi: a)la considerazione di questa forma di assistenza come un trattamento medico, come tale vincolato al consenso previsto dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione; b)la verifica del rifiuto dell’interessata a ricevere tale trattamento. Per cercare per il futuro e fin dove è possibile soluzioni non immediatamente laceranti e di contrapposizione, occorrerà quindi dare priorità a due temi.
            Il primo è quello del testamento biologico. Che si debba intendere o no come vincolante per il medico la volontà del paziente, è chiaro che il ricorso a testimonianze o all’interpretazione di comportamenti per risalire ad essa espone a rischi di distorsione che rendono assai problematico il rispetto del principio del consenso. È auspicabile che si possa rapidamente tornare a discutere la questione liberi da strumentalizzazioni politiche di piccolo cabotaggio. Ma è proprio in questo contesto che sarà inevitabile affrontare anche la questione di cosa significhi continuare a nutrire artificialmente un organismo divenuto completamente e irreversibilmente incapace di sentire, intendere, volere. Il concetto di fine “naturale” dell’esistenza è inservibile. Proprio l’invasione del corpo da parte della medicina e delle sue “tecniche” ha rappresentato il fattore decisivo per l’allungamento della vita e il miglioramento della sua qualità. La gran parte di queste condizioni estreme, d’altronde, è proprio un effetto delle nuove possibilità di intervento per rianimare pazienti che erano appunto naturalmente destinati a morte certa. Appare probabilmente più persuasivo l’argomento che almeno acqua e cibo sono ciò che dobbiamo ad ogni essere umano. Eppure la radicale diversità delle circostanze sembra anche qui legittimare almeno il dubbio sul carattere dell’obbligazione. Il figlio che ci sforziamo di sedurre con le arti del giocoliere perché mangi la pappa ha una potenzialità piena di vita davanti a sé. Quella di una figlia in stato vegetativo persistente, purtroppo, è ormai una vita che viene trattenuta sulla soglia di un commiato inevitabile. È ancora vita. E tuttavia lasciarla andare potrebbe diventare ad un certo punto una forma di rispetto. La stessa Congregazione per la dottrina della fede, in una Nota del 2007, ha riconosciuto che possono esserci dei limiti alla obbligatorietà morale e in linea di principio della somministrazione di cibo e acqua anche a soggetti in stato vegetativo persistente, come quello di «un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali». È una significativa conferma della tesi che le situazioni di soglia richiedono più di altre la pazienza dell’ascolto e della comprensione.
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