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Nel dibattito che sembra riaprirsi sulla 194 uno dei punti intorno ai quali si cerca di costruire un nuovo consenso è quello relativo ai limiti temporali entro i quali permettere il cosiddetto aborto “terapeutico”.

Ci sono già importanti strutture ospedaliere che applicano una sorta di autoregolamentazione, evitando interruzioni di gravidanza oltre la ventiduesima settimana. È davvero questo il nodo fondamentale di una cultura dell’accoglienza della vita?
Era prevedibile che l’approvazione alle Nazioni Unite della mozione italiana sulla moratoria per la pena di morte avrebbe riacceso la polemica sul fronte da sempre più esposto dell’intangibilità della vita umana. Il rifiuto di sopprimere l’individuo “colpevole” anche dei reati più odiosi, insomma, costituisce per alcuni la premessa per rimettere in discussione la violenza contro l’individuo che è per definizione il più “innocente”: il concepito nel grembo di sua madre. Per il Catechismo della Chiesa cattolica, d’altra parte, solo il divieto della seconda uccisione si impone – e proprio per questa ragione – con una evidenza di principio. L’aborto è condannato subito dopo l’omicidio, perché «dal primo istante della sua esistenza l’essere umano deve vedersi riconosciuti i diritti della persona» (2270). Per la pena di morte, della quale si tratta sotto la voce della legittima difesa, si ricorda invece il tradizionale insegnamento che non esclude il ricorso ad essa quando fosse «l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani». L’obiezione appare piuttosto di fatto: oggi, come già sottolineato da Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae, i casi nei quali invocare tale assoluta necessità sono «molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti» (2267). L’intenzione di non considerare mai chiusa la riflessione sulla dignità dell’uomo e sugli strumenti per la sua tutela rappresenta sempre un contributo importante e positivo. Ci sono tuttavia due equivoci che sarebbe opportuno evitare.
Il primo nasce con la facile tentazione di appaiare sotto il comun denominatore della “vita umana” situazioni che restano in realtà profondamente diverse e che mettono in gioco principi, valori e responsabilità diversi. L’insistenza sulla doppia moratoria può rappresentare un’utile sollecitazione ad un dibattito aperto e sereno, ma rischia di risultare fuorviante non meno dell’atteggiamento di chi, restando nel campo specificamente bioetico, comincia a parlare di eutanasia per finire all’aborto. La pena di morte ci interroga sulla vita come limite della simmetria retributiva che appare implicita nell’idea stessa del “fare giustizia”, aprendo ad una diversa comprensione di quest’ultima. Una scelta che è effettivamente il risultato di una maturazione culturale complessa e segnata da non pochi paradossi. Chi cerchi per esempio nell’illuminismo i prodromi della teoria abolizionista troverà in Robespierre il deciso rifiuto di questi «assassini solenni». Non certo in Kant, quasi puntiglioso nel precisare che anche nel caso che una società si dissolva con il consenso di tutti i suoi membri ci si dovrà prima preoccupare di giustiziare l’ultimo condannato: se un uomo ha ucciso, deve morire… L’aborto ci interroga su ciò che nel lavoro del boia è al contrario dato per scontato, perché altrimenti quella solennità si rovescerebbe in crudele pantomima. A salire i gradini del patibolo è un uomo e un processo non si farà mai al cane che ha sbranato un bambino, ma al suo padrone. Chi sostiene la priorità del principio di autodeterminazione della donna rispetto al diritto alla vita del feto lo fa appunto perché non riconosce la pienezza di tale umanità. Questa vita rimane disponibile e non è ancora intangibile perché si risponde diversamente alla domanda che molti secoli fa si poneva Tertulliano: non è vero che è già uomo colui che lo diventerà. Ed è per questo che non basta l’appello ad un condiviso, assoluto rispetto per la vita in quanto vita appunto umana ad appianare le divergenze. Le due questioni vanno tenute distinte, proprio nell’interesse di chi cerca di sollevare dubbi in quanti marciano con pari passione e determinazione contro le esecuzioni capitali e per il diritto a non far nascere il figlio che, semplicemente, non si vuole.
Il secondo equivoco è meno evidente e dunque, probabilmente, più insidioso. L’attenzione si va concentrando sul problema del limite temporale oltre il quale l’interruzione della gravidanza non è più possibile se non in presenza di «un grave pericolo per la vita della donna» e comunque, a questo punto, adottando «ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto». In Italia, in particolare, ciò significa intervenire sull’interpretazione di questa disposizione dell’articolo 7 della legge 194 senza modificarne la lettera, aprendo un orizzonte di confronto più facilmente praticabile perché meno condizionato sotto il profilo “ideologico”. La legge stabilisce che tale limite è superato quando il feto è capace di «vita autonoma», ma non si spinge a fissare quando ciò avviene. È di conseguenza del tutto legittimo chiedere che si prenda atto dei progressi della scienza per anticipare dalla ventiquattresima alla ventiduesima (come già è previsto da procedure di autoregolamentazione adottate da alcuni ospedali) o addirittura alla ventesima settimana la frontiera invalicabile del diritto all’autodeterminazione. L’obiettivo è chiaro: evitare le sempre più frequenti situazioni di conflitto che si determinano quando si tratta di sopprimere un feto che, con un adeguato supporto medico e farmacologico e spesso al prezzo di gravi danni permanenti e di un’esistenza dolorosa e difficile, potrebbe comunque sopravvivere fuori dal corpo della madre. Conflitto che ovviamente esplode quando il feto rifiutato “viene alla luce” vivo, perché la legge non consente a questo punto di lasciarlo morire. Peggio ancora se ci si accorge che lo si è rifiutato per sbaglio. Sarebbe stato un bambino perfettamente sano.  
Ebbene. È probabile che una restrizione dei limiti temporali di quello che eufemisticamente si suole definire “aborto terapeutico” sarà infine introdotta. Quello stesso avanzamento della scienza che consente oggi la sopravvivenza di neonati sempre più prematuri, in fondo, facilita e faciliterà anche una sempre più anticipata diagnosi prenatale, che aiuti a fare prima quel che si decide di fare, evitando lo “scandalo” del piccolo che non doveva nascere e dunque va lasciato morire (con tutti i conseguenti problemi giuridici, perché se avrà respirato anche solo per pochi secondi sarà appunto nato, avrà cioè acquisito la “capacità giuridica”). Anche se resterebbe in ogni caso aperta la più generale questione dell’assistenza ai bambini nati troppo “prima del tempo”. Si tratta però di capire se tutto ciò ha veramente a che fare con il problema della promozione di quella diversa cultura della vita e della maternità che viene spesso e giustamente invocata come la parte disattesa della stessa 194. E la risposta, probabilmente, deve essere negativa.
Il problema del limite temporale dell’aborto, così impostato, è tutto interno alla logica del violinista, per riprendere l’esempio utilizzato da J.J. Thomson come argomento contro l’imposizione di un obbligo alla maternità. Se un violinista avesse bisogno per sopravvivere di rimanere attaccato con una macchina al corpo di una donna, quest’ultima non potrebbe essere costretta a farlo, neppure se si trattasse solo di un’ora. Si potrà anche considerare al di sotto di ogni «decenza morale» un tale rifiuto, ma la disponibilità del proprio corpo non può essere imposta dalla legge. È in effetti a questa intuizione che rinviano, più o meno direttamente, le limitazioni appunto di ordine temporale previste dai diversi ordinamenti. Già la citatissima Roe v. Wade, la sentenza del 1973 che introdusse la libertà di aborto negli Stati Uniti, precisava che nel terzo trimestre, quando il feto ha raggiunto la viability, la privacy non può più essere invocata come criterio risolutivo. E non c’è dubbio che un accordo su questo punto sia utile e auspicabile. Esso, tuttavia, non sfiorerebbe neppure il cuore del problema, che resta quello non dell’autonomia del feto, bensì della particolarissima relazione fra una donna e il figlio che verrà solo se lei lo vorrà. Ciò che incide sui valori e i modi di questa relazione, che la accompagna e sostiene o, al contrario, la “privatizza” e abbandona a se stessa, è di gran lunga più importante e decisivo della definizione di quando un feto può farcela da solo. Senza dimenticare, peraltro, che è ben lontana dall’essere “autonoma” la vita in un’incubatrice, così come quella dell’infante capace solo di esprimere con il pianto il suo bisogno di cura. Che si apre subito, ancora una volta, alla relazione: risu incipit cognoscere matrem. È più importante, per essere concreti, quel che si deciderà sulla Ru 486. Sono più importanti i finanziamenti e il sostegno a chi aiuta le donne e, perché no, i loro mariti e compagni a farcela. La questione di una nuova cultura dell’accoglienza alla vita, dello stupore e della gratitudine per la vita che nasce, per citare Mary Warnock, non si risolve con un bonus di un paio di settimane.
 
 
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