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Concludendo un percorso legislativo e istituzionale avviato nel 2002, la Spagna ha approvato una legge sul testamento biologico. Ovvero, sintetizzando, una legge che riconosce la possibilità per il paziente di dare indicazioni al personale sanitario in merito ai trattamenti cui desidera o non desidera essere sottoposto;

tali indicazioni, contenute in un atto avente valore giuridico (il testamento biologico, appunto, o il living will anglosassone), sono formulate avendo riguardo all’eventualità che, in un momento non precisato nel futuro, il soggetto possa perdere la capacità di intendere e volere, o quantomeno quella di comunicare, o finanche essere del tutto incosciente.

Insomma, si tratta di indicazioni date “ora per allora”, e relative non soltanto all’eventuale rifiuto di alcuni trattamenti, che il soggetto ritiene particolarmente invasivi e non desiderabili, ma anche al tipo di assistenza religiosa, alle indicazioni per la sepoltura, al ricovero ospedaliero o domestico, eccetera.

Saggiamente, la legge spagnola non assegna a tali indicazioni una vincolatività irresistibile per il medico; ed è una scelta saggia anzitutto sul piano sanitario, perché il paziente non è necessariamente a conoscenza degli sviluppi e delle possibilità della scienza medica, e dunque potrebbe dare indicazione basate su un’errata conoscenza dei dati (ad esempio considerando inguaribile o irreversibile una patologia o uno stato che le tecniche disponibili al momento in cui esso si verifica potrebbero invece affrontare con successo e superare).

Ma è una scelta saggia anche in relazione al piano più generale, teorico, entro il quale va collocata la previsione del testamento biologico. Ovvero, in relazione ad una configurazione adeguata del rapporto medico-paziente, che sempre più decisamente si va strutturando come una vera e propria “alleanza terapeutica”; in tal senso, né il paziente può essere considerato un mero oggetto della prassi medica, né il medico un mero esecutore della volontà arbitraria del paziente, ma entrambi (seppure nella diversità di posizioni e competenze, ed in un necessario clima di fiducia) devono cooperare nell’elaborazione delle scelte terapeutiche.

E così, non può che essere salutata con favore una soluzione legislativa che vada nella direzione di un generale rafforzamento di tale alleanza, consentendo al medico di prendere in considerazione la effettiva volontà del paziente anche ove essa non possa più esprimersi in atto, pur potendo da essa discostarsi ove, in scienza e coscienza, egli ritenga che il bene del paziente sia meglio salvaguardato in altro modo.

Tali considerazioni, genericamente favorevoli alla previsione del testamento biologico (che infatti la stessa Chiesa spagnola ha salutato con favore), non possono però far dimenticare alcuni profili problematici, sia sul piano normativo che su quello etico.

Sotto tali profili, resta molto complesso l’apprezzamento del valore della volontà soggettiva, espressa in un momento in cui non v’è necessariamente consapevolezza della situazione nella quale le indicazioni date dovranno avere vigenza. In altri termini: come possiamo essere sicuri che il paziente fosse davvero a conoscenza del significato tecnico-sanitario delle indicazioni date? Se infatti il testamento biologico non è che un’estensione nel tempo del principio del consenso informato, vero cardine del rapporto medico-paziente, come assicurarsi che il consenso o il dissenso ai trattamenti sia il prodotto di un’informazione adeguata? E poi: come evitare che il paziente, che tendenzialmente redige un testamento biologico in un momento in cui la situazione patologica non è ancora presente, non resti vincolato ad indicazioni espresse nel passato, anche ove abbia nel frattempo cambiato idea (ma non sia più in grado di comunicare tale mutamento)? O per contro: laddove il testamento venga redatto nel momento in cui la patologia grave si presenta, come assicurarsi che esso non sia il frutto della paura, dello sconforto, insomma di condizionamenti che interferiscono con l’elaborazione di una serena volontà?

Tale ultimo problema, si badi, è meno teorico di quanto si possa pensare: in molti ospedali inglesi, infatti, laddove si presenti all’accettazione un paziente anziano (attenzione: la soglia dell’età anziana è 70 anni…), gli si chiede di firmare un testamento biologico, col quale in sostanza vengono rifiutati i trattamenti più complessi (e, guarda caso, più costosi per la struttura), ove non vi siano concrete possibilità di una pronta guarigione.

Come si vede, il tema è alquanto spinoso; chiunque sia andato in un ospedale sa quanto frettolosamente e burocraticamente vengono fatti firmare i moduli del consenso informato, spesso percepiti dal medico come un mero sgravo di responsabilità, e dal paziente come un’ulteriore, fastidiosa incombenza amministrativa. Sarebbe ben grave, però, se alla stessa banalizzazione burocratica venissero ridotti i testamenti biologici; che meritano, invece, una ponderazione e una valutazione serena, e possibilmente l’aiuto di un medico di fiducia nella loro redazione.

Ma allora, è facile comprendere che se sul piano puramente teorico non si possa che essere favorevoli all’introduzione dei cd. testamenti biologici (ma sarebbe più corretto chiamarli: indicazioni anticipate di trattamento), almeno nella misura in cui si accolgono i principi del consenso informato e della alleanza terapeutica come cardini del rapporto medico-paziente,

bisogna altresì fare molta attenzione a come, nella realtà quotidiana, tali documenti vengono redatti e valutati. Ma questo, evidentemente, è un problema cui solo una corretta prassi sanitaria, oltre che la deontologia dei medici e dei soggetti coinvolti, possono rispondere.

rn

 
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