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“Le parole sono pietre”, amava ripetere Francesco Carnelutti, insigne giurista del secolo appena trascorso. E nella vicenda Englaro, che è un caso (oltre che umano) giudiziario, occorre fare attenzione ai significati di “atti politici” e “fatti giuridici”, indissolubilmente legati tra di loro.

C’è, sotto questo profilo, un aspetto che non mi pare sia stato affrontato nella sua interezza: il significato politico-costituzionale della tragica soluzione della vicenda. Tema che si intreccia con la compatibilità giuridica del decreto legge con la “sentenza” dei giudici milanesi e l’esatta portata del limite dell’habeas corpus.rn

E’ subito il caso di ricordare che mai sino ad oggi il nostro ordinamento, quale insieme di poteri democratici, aveva tollerato che ad una persona con disabilità fosse sospesa l’idratazione, ricostruendone una volontà in tal senso. Tale situazione che, almeno astrattamente sarebbe rientrata nei reati di omicidio del consenziente o di suicidio assistito, è stata autorizzata (ma dottrina penalistica rifiuta la tesi che un decreto autorizzatorio possa escludere un reato) in forza della legittimazione da parte di un organo giudiziario di controllo sulle funzioni tutelari (cioè di tutela della persona): il decreto della Corte d’Appello di Milano. Ora, il dibattito sulla forza giuridica di quel decreto dei giudici si è concentrato sul tema della sua portata definitiva, in quanto confermato dalla Cassazione, cioè se fosse un atto immodificabile con un decreto-legge (anche nella motivazione di rifiuto della firma nella lettera del Capo dello Stato si fa riferimento a questo profilo, risolvendolo positivamente). A mio avviso, il punto è un altro: che forza espansiva possiede un decreto dei giudici, richiesto nell’ambito di una procedura “chiusa”, come è la volontaria giurisdizione, che non ammette altre “parti” se non i rappresentanti del soggetto alla cui cura sono preposti? Può tale “sentenza”, pur ammettendo che sia definitiva, operare anche nei confronti di altri enti e cittadini (cioè strutture e medici) estranei al giudizio?

E’ noto che, di regola, i decreti di autorizzazione, legittimando al compimento dell’atto autorizzato esclusivamente il soggetto richiedente, non producono effetti nei confronti dei soggetti che non hanno partecipato alla procedura e, perciò, non hanno potuto esercitare il loro diritto costituzionale alla difesa e al contraddittorio. E’ in sostanza questo il presupposto giuridico prima del rifiuto della regione Lombardia, poi dell’atto di indirizzo del Ministro della salute, quindi del decreto-legge del governo, e, da ultimo, della parte di mozione della maggioranza approvata anche con il voto di Rutelli e di alcuni senatori Pd di estrazione popolare: tutti atti imperniati sulla ragione che ciò che era legittimo per il tutore, e dunque eseguibile “privatamente”, non lo fosse con l’assistenza di personale di cura. Ora questo profilo è stato sbrigativamente risolto come la logica conseguenza che se si ottiene un’autorizzazione giudiziale, allora amministrazioni e comunità “debbano” attuarla. La facile e apparente equazione rappresenta in realtà un macigno giuridico-costituzionale che divide giuristi e politici (o più onestamente giuristi-politici), tra due visioni del rapporto tra valore della persona e dei diritti di libertà, in dialettica tra loro. L’una ripercorre le ragioni della lezione lapiriana sull’art. 2 della Costituzione, dove la Repubblica “si inchina” ai diritti inviolabili della persona, intesa come “soggetto relazionale”, diritti, dunque, che preesistono allo Stato e alle scelte ordinamentali; l’altra ritiene che i diritti di libertà abbiano natura di pretese giuridiche e, dunque, necessità di una loro attuazione da parte delle amministrazioni o della comunità, pena la loro giuridica inesistenza. Due visioni che, con tutti i limiti delle esemplificazioni, potremmo definire, rispettivamente, “personalista” e “individualista” (quest’ultima con accentuazioni stataliste o liberiste, a seconda che si faccia leva sul ruolo dello Stato o sulla sovranità dell’autodeterminazione). Del resto, proprio la dinamica giudiziaria della vicenda ha plasticamente mostrato la missione dei legali degli Englaro di assegnare alla “facoltà” del tutore una rilevanza giuridica “forte”, in taluni casi anche pubblica, come con il ricorso al Tar della Lombardia. E’ però fondamentale ricordare che i provvedimenti giudiziari ottenuti non hanno deciso sul punto con sentenza definitiva.

Anzi il tragico epilogo è uscito dagli schemi giudiziari, che sarebbero naturalmente sfociati in sentenza esplicita e definitiva (Consiglio di Stato o Cassazione) anche con riferimento al tema fondamentale dei soggetti legittimati ad operare il distacco del sondino. Su questo punto non si registra invece alcuna pronuncia che faccia “giudicato”, finendosi appunto con l’“interpretare” il decreto milanese in base ad una opzione culturale. Anche il capo dello Stato ha – legittimamente si badi bene – fatta propria una delle possibili letture costituzionali della vicenda, ma, ad avviso di chi scrive, essa non troverebbe fondamento (almeno secondo quanto emerge dalla nota – peraltro riservata e personale – inviata al presidente del consiglio) sulla valutazione giuridica legata al confronto tra i contenuti del decreto dei giudici e del decreto-legge del governo, rispettivamente, l’uno autorizzatorio all’esercizio individuale di una libertà e, l’altro preclusivo ad una compartecipazione di chi presta servizio di assistenza. Del resto anche le ragioni dei costituzionalisti che hanno propeso per l’incostituzionalità del decreto del governo, muovono dall’assioma che il decreto milanese operi un effetto “sostantivo” sulle strutture di assistenza e il personale medico, così come argomentato del Tar Lombardia, che in quella direzione era certamente andato, ma con una tesi che, come detto, non ha ancora ricevuto il rango di giudicato definitivo. Posizione, dunque, legittima, ma discutibile, e riguardante un tema enorme, che coinvolge prerogative di soggetti pubblici, contenuti professionali di chi presta assistenza alla cura, necessaria omogeneità dei protocolli regionali e principio di unitarietà del nostro sistema sanitario, solo per citare alcuni aspetti. Ma, soprattutto, posizione priva di esplicita soluzione giurisprudenziale definitiva.

Anche sotto questo profilo, si comprende forse meglio perché soprattutto costituzionalisti di lettura lapiriana (penso a Capotosti, Mirabelli e Olivetti) hanno ritenuto che, nel caso, non vi fosse contrasto tra poteri, giudicando costituzionale il decreto del governo.

Il tema ora si ripropone, identico nella sostanza, anche nella vicenda della legge sulle direttive anticipate.

Solo apparentemente il divario è tra il sì o il no all’alimentazione e l’idratazione artificiale. Il punto è piuttosto: fino a che punto la libertà di rifiuto di intromissioni sul corpo (habeas corpus ad subiciendum) del paziente può entrare in una dimensione relazionale tale da legittimare anche il comportamento di chi presta assistenza al malato al compimento di un atto che va contro la vita?

E’ perciò semplicistico dire che in questa vicenda è in gioco esclusivamente la possibilità individuale di rifiutare atti intrusivi sul proprio corpo, che – a ben vedere – potranno legittimamente respingersi alle soglie del rapporto medico-paziente. Ciò che è in gioco è l’aspetto correlato al diverso caso dell’interruzione di un trattamento già in atto, che, nella visione personalista, non può trasformare il medico-persona in soggetto-strumento, esecutore della volontà del paziente rispetto ad un atto contro la sua esistenza stessa (lo può invece nella visione autodeterministica). C’è via d’uscita? Apparentemente no, a meno che non si possa approfondire il tema dell’accanimento terapeutico (escluso dagli stessi giudici nelle vicende Welby ed Eluana, ma non per una parte della coscienza sociale), calibrandone la portata rispetto alla progressiva ed oggettiva invasività della tecnologia sulla natura dell’esistenza umana. 

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