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La “lingua perduta delle gru” è un romanzo di David Leavitt che prende spunto da un disturbo psicotico per cui un individuo tende progressivamente ad identificarsi fino ad assomigliare alla cosa che desidera e ama di più. Leavitt racconta di un bambino che osservando continuamente dalla sua finestra delle gru di un cantiere, se ne innamora a tal punto tanto da “trasformarsi” in una di queste macchine imitandone i movimenti ed i suoni.

Questa storia mi ha fatto pensare ad una delle tendenze culturalmente più pericolose della scienza moderna e di cui pochissimo (o per nulla) si parla. Mi riferisco al fatto che una parte significativa dei cosiddetti “scienziati” sembra essersi innamorato a tal punto dei propri strumenti di indagine (la matematica) fino a trasformare la scienza stessa in un culto della pura forma, lontano dalla realtà e dai problemi concreti. Il grande matematico, Christ John von Neumann, nel suo saggio del 1947 “The Matematician” ammoniva: “Quando una disciplina matematica si allontana di molto dalla sua fonte empirica […] corre pericoli estremamente gravi. Diventa più un’attività puramente estetica, sempre più l’art pour l’art. […] . In altre parole, una disciplina matematica che si trovi a grande distanza dalla sua fonte empirica, [… ] corre il rischio di degenerare”. Sembra proprio quindi che per questa visione della scienza, le rappresentazioni matematiche siano più reali della realtà stessa e che pertanto ciò giustifichi lo studio della matematica pura come la forma più alta di studio della realtà più profonda.

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L’origine di questa psicosi della scienza, e cioè l’idea che la Natura nella sua totalità sia scritta nel linguaggio della “matematica” e che quindi la matematica sia l’unico linguaggio possibile per comprendere la Natura, è certamente molto pubblicizzata dai media e radicata nella nostra cultura occidentale, a partire dalla scuola pitagorica fino ad arrivare a Galileo Galilei. La grande fiducia che oggi si accorda alla matematica si basa sui grandi e spettacolari successi della fisica, dalla dinamica newtoniana, alle equazioni di Maxwell sui campi elettromagnetici, alla relatività e, più recentemente, ai fenomeni quantistici. Questi però sono i successi di una parte, seppur importantissima, della scienza che oggi appare sempre più limitata sia nella sua portata esplicativa che interpretativa. E’ infatti ormai molto difficile sostenere che la Natura nella sua complessità possa essere rappresentata dalla fisica attraverso la matematica ed infatti, le moderne ricerche di una “teoria del tutto”, incontrano sempre più atteggiamenti critici anche fra gli stessi addetti ai lavori. Scrive ne “Il paradiso perduto”, il grande fisico quantistico Marcello Cini: “I fenomeni semplici, manifestazioni di leggi naturali universali, che per la scienza classica erano la regola, sono in realtà rare eccezioni”. Verrebbe da aggiungere, come così ben raccontato su questo sito da Alessandro Giuliani nelle sue divertenti e profonde analisi delle scienze biologiche moderne, che anche nella medicina moderna, le malattie “semplici” e cioè quelle legate a singole cause (come per esempio difetti di un singolo gene) non sono certo la regola, ma bensì rare eccezioni. Purtroppo però, in alcuni settori della biologia contemporanea troviamo tracce di questo atteggiamento di culto della pura forma: molti progetti di ricerca ben finanziati hanno come obiettivo dichiarato quello di costruire una “cellula virtuale” (se non un “organismo virtuale”!) e cioè una rappresentazione matematica così dettagliata da includere ogni singolo aspetto molecolare e permettere quindi una “vera” comprensione dei fenomeni biologici. L’idea che la rappresentazione (matematica) sia più reale della realtà è ancora pericolosamente ben presente ed attiva nella scienza istituzionale e nei programmi di ricerca di tutto il mondo.
Ma proprio la biologia ci racconta una storia molto diversa e ci apre nuovi orizzonti. Basta leggere uno qualsiasi dei libri di testo di biologia molecolare cellulare e notare la sorprendente assenza in migliaia di pagine di qualsiasi formula matematica, anche la più semplice. La vita molecolare della cellula, seppure immersa in leggi fisiche che possiamo ben affermare come “note” con grande accuratezza, appare più simile ad un romanzo popolare che ai “Principia Mathematica” di Whitehead e Russell. Eppure stiamo parlando in una scienza a pieno titolo ed il contenuto dei libri di testo non possono che essere considerate “verità scientifiche” nel senso più pieno della definizione e giustamente nessuno ne dubita seriamente. Questo significa che l’autorità della biologia molecolare non ha nulla a che vedere con i successi della fisica e la sua credibilità non deriva minimamente dai suoi fondamenti fisici, come si potrebbe essere portati a credere. Infatti, Ernst Mayr, e molti altri biologi, ritengono che la biologia nel suo complesso sia una scienza autonoma che risponde a domande molto diverse da quelle della fisica e che fornisce risposta altrettanto diverse. La biologia, afferma Mayr nel suo libro “L’unicità della biologia”, definisce “concetti” e non “principi” e l’eccezione non distrugge la regola (come nessariamente deve essere nella razionalità formale della matematica). Gli oggetti della biologia sono inoltre molto diversi da quelli della scienza fisica. L’esempio fornito da Mario Ageno nel suo libro “Le radici della biologia” è molto chiaro: gli elettroni sono ipotizzati tutti uguali e la ripetitività di oggetti sempre uguali a loro stessi definisce il substrato logico e razionale dell’analisi del mondo fisico. Il mondo vivente è invece caratterizzato da una intrinseca variabilità, nel senso che proprio la diversità a far sì che il vivente sia vivo e quindi buttare via la diversità per mantenere gli aspetti comuni universali ed invarianti significa buttare via tutto.
Non si tratta quindi di trovare un nuovo linguaggio per la Natura che sostituisca o integri la matematica. La lingua perduta della Natura è, per fortuna, irrimediabilmente perduta.
 
 
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