Sul fronte politico ed economico-finanziario si comincia ad ammettere che la crisi in atto è una vera “crisi di sistema”. Nonostante il forte clamore mediatico, tuttavia, in merito ai fatti di Torino e Firenze poche sono state le analisi che hanno tentato di andare oltre le spiegazioni contingenti e di individuare i nessi profondi che legano la crisi ricordata sopra e il malessere sociale.
In The Mismeasure of Man, uno dei libri più istruttivi che si possano leggere sull’inconsistenza degli assunti scientifici del razzismo, lo scienziato statunitense di origine ebraica Stephen Jay Gould (scomparso nel 2002), si chiede se non sia proprio nei momenti di smarrimento politico e di abolizione della solidarietà civile che le istituzioni dovrebbero alzare la guardia sulle tensioni sociali, in particolare se queste sono esacerbate dal solito vecchio vizio di dividere il mondo in buoni (“noi”) e cattivi (“gli altri”) per calcoli di bottega conditi con ideologie da basso impero.
Anche se molto diffuse, idee come quelle che dipingono la società globale in cui siamo immersi come un mosaico di “razze biologiche” diverse sono fuori dalla realtà, in altre parole sono palesemente sbagliate. E come la storia ha più volte dimostrato, il passo dalle idee sbagliate alle idee pericolose può essere brevissimo.
In Italia i campanelli d’allarme si sono fatti (ri)sentire anche pochi mesi fa, quando, in occasione delle ultime elezioni amministrative, sui muri delle strade di Milano si è improvvisamente materializzata una campagna denigratoria contro gli stranieri “indesiderati” diffusa attraverso manifesti che recitavano slogan del tipo “Milano zingaropoli”. Bisogna certamente imparare a stemperare con intelligenza certi pregiudizi culturali, ma soprattutto bisogna abituarsi a riconoscere le derive pericolose che covano sotto la sterpaglia dell’egoismo radicale e disumano assurto ormai a modello sociale formalmente sancito. Provvidenziali dunque sono stati gli interventi, pacati nei toni ma granitici nei contenuti, dell’ex vescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, che il maggio scorso, andando controcorrente, ha interrotto con un tempismo perfetto il silenzio francamente imbarazzante proveniente dalle altre istituzioni locali e nazionali. Rendersi conto dell’urgenza di smorzare rapidamente, soprattutto in questi anni, qualsiasi focolaio di nervosismo sociale significa aver inteso chiaramente l’entità del problema. Se per il gioco sconsiderato dei politicanti d’assalto, l’antico baco razziale continua a insinuarsi nella collettività — con effetti potenzialmente tragici come quelli di Torino e Firenze — allora significa che da qualche altra parte si continua a tenere accesa l’odiosa fiammella delle “differenze umane” determinate alle razze (detto per inciso, non sapremo mai se gli eventi di Torino e Firenze sono stati effetti diretti della campagna denigratoria richiamata sopra, probabilmente no, ma, al di là delle motivazioni contingenti dei singoli fatti di violenza, un legame con quel contesto è assai probabile che ci sia stato).
A tali considerazioni si arriva abbastanza facilmente quando ci si accorge che in vari settori della scienza e della cultura (si legga il Corriere della Sera del 10/7/2011) è ancora diffusa la convinzione che l’umanità sia divisa in razze geneticamente delimitate e facilmente riconoscibili magari attraverso il semplice esame dei tratti somatici macroscopici individuali, come la pelle, i capelli, gli occhi, e altri. In linea di principio, potrebbe anche trattarsi di una convinzione maturata in buona fede, ossia senza retropensieri “razzisti”. Resta purtroppo il fatto che tale convinzione è priva di qualsiasi fondamento scientifico, oltre che agevolmente manipolabile dai malintenzionati pronti a farne una sorta “teoria” dei gruppi umani degni o meno di una carta d’identità rispettabile.
Anche se oggi nessuno scienziato o intellettuale nel pieno delle proprie facoltà si sognerebbe di disquisire sull’esistenza di razze superiori e inferiori (o altre fesserie analoghe), spesso l’esistenza delle razze umane viene pubblicamente adombrata facendo uso di argomenti scientifici ben pesati e ben comunicati: tutti elementi che in questa nostra epoca esercitano un’ottima presa sugli organi di informazione e sull’opinione pubblica (si legga l’Independent del 18/7/2007).
Ciò detto, le teorie sulle razze umane, ancorché millantate da autorevoli esponenti del mondo della scienza e della cultura, sono sempre destinate a sgretolarsi quando dalle semplici idee si passa ai fatti. Al di là dei tanti malintesi e delle ideologie che possono offuscare anche le menti migliori, la scienza vera per fortuna continua a procedere senza troppi equivoci: obbligando cioè gli scienziati a supportare con dati probanti le proprie asserzioni (scientifiche) sul mondo. Ed è proprio su questo terreno che tutti i castelli di idee a sostegno della realtà delle razze umane regolarmente crollano.
Uno dei problemi più rilevanti sta nel fatto che, in questa materia, prevalgono stereotipi mutuati dalle vecchie categorie dell’Antropologia fisica, che pretendeva di distinguere i gruppi razziali umani (per esempio, Caucasoidi, Congoidi, Capoidi, Mongoloidi, Australoidi) senza essersi mai posta il problema di fissare dei criteri di classificazione precisi e inequivocabili. Nella seconda metà del Novecento, il numero delle razze umane descritte dagli antropologi e dai naturalisti oscillava tra meno di 5 e più di 50: un sintomo piuttosto evidente del fatto che quando si misura e si classifica qualcosa che esiste solo nella nostra mente, i risultati sono manifestamente arbitrari.
Ciò che sappiamo oggi, grazie alle conoscenze prodotte negli ultimi decenni dalla ricerca biologica di base, è che le razze umane non sono entità naturali come lo sono invece la specie umana, gli individui umani o le popolazioni umane. Inoltre sappiamo che l’unico criterio verificabile con un buon grado di precisione per poter definire l’esistenza di razze biologiche all’interno di una specie è vedere come si distribuisce la variazione genetica, proprio come si fa con tutti gli altri animali e le piante. Applicando alla specie umana questo criterio troviamo che le differenze genetiche tra le presunte “razze”, per esempio tra neri e bianchi, sono statisticamente irrilevanti, perché la vera variazione genetica rintracciabile nella nostra specie è quella che si riscontra tra i singoli individui, non tra i gruppi. La teoria delle razze umane allora è pura “metafisica” nel senso meno nobile del termine, perché non tiene conto di ciò che è stato ampiamente acquisito dalle scienze naturali, che però in materia hanno qualcosa di molto serio da dire.
Grazie anche ai risultati (inattesi) del Progetto Genoma Umano, disponiamo di ottime evidenze del fatto che il 99,9% del DNA è lo stesso per tutti i nostri simili; quindi le vere differenze riguardano (mediamente) un misero 0,1% del DNA totale, il che significa che è solo all’interno di questo modestissimo residuo che possiamo andare a caccia delle variazioni genetiche dell’umanità. Non dobbiamo peraltro dimenticare che il nostro genoma è una grande molecola con funzioni di memoria biologica, ereditata, sia pur con qualche lieve modifica, da quella popolazione ancestrale di uomini e donne dell’Africa orientale che più di 50 mila anni fa abbandonò il continente nero per colonizzare nuove aree della Terra. Una popolazione che da allora è cresciuta in modo sbalorditivo e non ha più smesso di spostarsi, riprodursi e mescolarsi, prevenendo in questo modo l’evoluzione divergente di gruppi umani distinti.
Il fatto è che i dettagli fisici che ci sembrano più importanti nel determinare le differenze razziali umane, come per esempio la forma del naso, la tessitura dei capelli o il colore della pelle, creano una sorta di illusione ottica che ci porta completamente fuori strada. La variazione di queste caratteristiche fisiche non riveste alcuna particolare rilevanza nella nostra biologia, anche se in un lontano passato esse potrebbero essere state il frutto dell’adattamento ad ambienti di vita differenti. Tali caratteristiche, tra l’altro, non hanno nemmeno una base genetica molto chiara. I caratteri fisici utili per dire qualcosa sulle differenze genetiche umane sono soprattutto quelli non-visibili, come i gruppi sanguigni o altri che si sono dimostrati importantissimi in biomedicina. La variazione di questi caratteri però non mostra alcun andamento coerente con le “razze umane” descritte tradizionalmente, benché in certi casi si possano registrare delle differenze statistiche a livello di popolazioni diverse (popolazione e razza sono due concetti biologici completamente diversi).
In realtà, allora, le variazioni del DNA non si raggruppano in modo omogeneo negli individui di ogni presunta razza, ma sono cosmopolite, ossia vanno in giro per il mondo, come hanno sempre fatto, fregandosene bellamente delle nostre convinzioni sulle differenze razziali, e quindi si distribuiscono in modo imprevedibile negli individui dell’unica grande “razza umana” a cui tutti apparteniamo.
La conclusione è che le razze umane non esistono se non come spettri della nostra fantasia. Invece esistono gli individui, ed è solo tra gli individui che si registra una variazione genetica significativa. Inoltre esistono le popolazioni, ossia gruppi di individui all’interno dei quali è più probabile l’accoppiamento tra donne e uomini. E infine esistono le specie, che sono insiemi di popolazioni sparse per il mondo che condividono la proprietà di essere potenzialmente o realmente interfeconde, anche se nella maggior parte dei casi non si incontreranno mai.
Solo usando queste diverse categorie scientifiche, più altre importanti categorie di tipo culturale, si può realisticamente parlare di differenze nella nostra specie, ossia di “biodiversità umana”. Chi invece si sforza di parlare in modo serio, o magari allarmistico, di differenze biologiche tra razze umane, dice molto più sui suoi pregiudizi culturali che sulla biologia dell’uomo. I figli dei teorici di “Milano zingaropoli” hanno lo stesso sangue africano dei bambini Rom e di tutti gli altri bambini del mondo.
Il fantasma scientifico delle razze ai tempi della crisi
Il mese di dicembre che ci lasciamo alle spalle non si potrà dimenticare tanto facilmente per le agghiaccianti notizie di cronaca a sfondo razziale. In soli tre giorni si è passati dal folle incendio appiccato al campo Rom di Torino per una banale messinscena tramata da una minorenne italiana, all’agguato di Firenze in cui un uomo certamente disturbato e di palesi simpatie naziste ha brutalmente ucciso due ragazzi senegalesi, ferendone altri tre, per poi suicidarsi all’interno di un garage. Lo sgomento generato dall’efferatezza di questi eventi, tale da indurre più di un commentatore a parlare di pogrom, accompagna la visibile inquietudine collettiva che monta per ciò che molti definiscono come il periodo più difficile del dopoguerra.
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