Eppure, fatta la dovuta tara al voyeurismo mediatico, e alle speculazioni dei protagonisti, che non rinunciano alla ricercata e ben pagata notorietà mediatica, la vicenda appare in tutta la sua conturbante banalità, almeno dal punto di vista medico; una donna, in ragione di una psicosessualità di tipo femminile, decide di cambiare sesso, secondo quanto la legislazione britannica le consente. E sempre secondo quanto il medesimo ordinamento le consente, decide di non modificare la sua sessualità biologica: mantiene i genitali interni ed esterni femminili, non sottoponendosi ad operazioni di chirurgia plastica per adeguare la sua condizione biologica a quella psicologica, e si limita a sottoporsi ad una terapia ormonale per stimolare la comparsa di caratteri tipicamente maschili (la voce, la peluria sul viso), oltre che ad una riduzione del seno.
Perché abbia deciso di fare ciò, restando biologicamente donna, non è affar nostro, e le ragioni potrebbero essere in effetti moltissime: una comprensibile paura dell’operazione, la sfiducia nelle possibilità di ottenere risultati apprezzabili, il desiderio di conservare la possibilità del piacere sessuale, e così via. L’unica cosa che va rilevata, in una prospettiva bioetica, è la scissione tra sessualità biologica e identità sessuale che caratterizza la vicenda personale di Th. Beatie; e che, per l’appunto, è all’origine di quel turbamento che si genera in chi osserva le foto di quello che, con tutta evidenza, appare un “uomo” incinto.
Tanti sono i profili problematici; ad esempio, ci si potrebbe chiedere a quali rischi sia sottoposto un feto che si sviluppa all’interno di un corpo certamente femminile, ma sottoposto probabilmente per anni ad un vero e proprio bombardamento con ormoni maschili. E ancora, ci si dovrà pure porre il problema di una famiglia composta da due madri, ma in cui la madre gestazionale sarà quella che svolgerà a tutti gli effetti il ruolo di padre nei confronti del nascituro. O anche, si dovrebbe riflettere sugli eccessi cui il desiderio di genitorialità possa portare, e sui limiti in cui la scienza e l’ordinamento debbano assecondarlo.
Eppure, io credo che la specificità della vicenda di Thomas Beatie stia in altro, e particolarmente nella già detta scissione tra identità sessuale e sessualità biologica; scissione che, sia detto per inciso – ma il discorso dovrebbe essere lunghissimo – è alla base di quelle che oggi chiamiamo gender theories , e che per l’appunto ritengono che l’identità sessuale non abbia alcuna relazione necessaria con la biologia, ma si debba collocare su un piano, diciamo così, esistenziale. Il risultato, come si sa, è che di generi ce ne sono molti più di due (uomini, donne, gay, lesbiche, transessuali…) e che tutti chiedono di essere riconosciuti e tutelati in quanto tali (e non come semplici manifestazioni, estrinseche, della libertà sessuale). E’ tale scissione, lo ripeto, che crea turbamento, e che rappresenta una tappa ulteriore di quel libertarismo che sembra essere diventata davvero la parola d’ordine della postmodernità.
Molti ordinamenti, come si sa, stanno assecondando questa deriva libertaria; in Spagna, ad esempio, la legislazione sul cambiamento di sesso prevede precisamente che il soggetto, in virtù di una sua libera e incontestabile decisione, possa cambiare sesso anche più volte nel corso della sua vita, ovvero che l’ordinamento debba recepire ogni indicazione che, in tal senso, provenga dal soggetto, adeguando i registri anagrafici alla volontà del singolo. Per capirci, è il contrario di ciò che avviene in Italia, dove – mantenendo la simmetria fra sesso biologico e identità sessuale – il cambiamento di sesso (anagrafico) deve non solo essere autorizzato dal giudice, ma corrispondere ad una mutata realtà biologica. Insomma: il dato anagrafico non può che corrispondere a quello fisico, e se cambia l’uno deve mutare anche l’altro.
rnLaddove questa intuitiva simmetria si scardina, per cui la mia identità diviene un dato meramente psicologico, del tutto indipendente da quello fisiologico, vicende come quella del signor Beatie non sono poi così stravaganti; potranno essere statisticamente marginali, ma non irreali. La questione che si pone ai giuristi, però, è immensa: quanto ancora il diritto può seguire le infinite e imprevedibili determinazioni della volontà soggettiva, negando ogni limite di carattere oggettivo, ogni evidenza naturale, ogni riferimento alla realtà delle cose?