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Alessandro Giuliani, Alberto Gambino
rnC’è una grande asimmetria tra chi si occupa di scienze naturali e chi invece si occupa di scienze sociali. Questa asimmetria genera l’annosa contrapposizione tra interpretazione e spiegazione: le scienze naturali si basano su dati oggettivi, misurabili, esatti; mentre le scienze della cultura si basano sulle interpretazioni, che per definizione sono soggettive.

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Non avrebbe quindi molto senso occuparsi ‘politicamente’ o comunque con un progetto per il bene della società di scienze naturali in quanto tali essendo lo spazio di dibattito praticamente nullo.

Questa è una vera e propria perniciosa ideologia che crea molti problemi alla costruzione del Bene Comune: la superiorità (e conseguente neutralità) delle scienze naturali rispetto a quelle dell’ uomo è basata su presupposti falsi. Come sosteneva Pavel Florenskij [1910], un matematico, un sacerdote ortodosso, un filosofo, un epistemologo, un linguista: "siamo imbevuti di un pensiero tendenzioso e non riusciamo più ad accostarci ad una questione, ad analizzarla nella sua essenza. Per noi le ipotesi assurgono a dogmi, i dogmi si irrigidiscono e lo spirito si chiude nell’involucro fossilizzato delle opinioni altrui, il criticismo svapora, la scienza perde la sua essenza e attraverso la spessa corazza dei falsi assiomi non c’è modo di giungere all’aria fresca […] da quante teorie il pensiero tendenzioso si è creato una religione".
Quanto osservato da Pavel Florenskij  è tipico delle fasi senili delle scienze: esse tendono a diventare una religione che atrofizza il pensiero scientifico rendendolo infruttuoso. Occorre un cambio di paradigma. La scienza sta morendo della stessa malattia che qualche secolo fa ha colpito l’arte: l’autoreferenzialità. Abbiamo bisogno di un pensiero realmente scientifico, perché è l’unico onesto in quanto costruito artigianalmente dall’autore, è l’unico onesto in quanto programmaticamente incompleto e perfettibile.
E’ necessario per noi costruire una cultura scientifica basata sul (buon) senso comune, che sia in grado di dare a tutti i lettori  gli strumenti adatti alla critica e all’analisi; di liberarli dalla dipendenza degli esperti. Questo potrebbe anche essere molto utile allo smascheramento dei tentativi di utilizzare la scienza come un feticcio, cosa che sta avvenendo nella biopolitica, dove la scienza viene usata come un feticcio per spiegare altre cose, tradendo di fatto il fine per cui è nata: il tentativo di esplorazione dell’ignoto accettando il rischio (e aggiungerei la gioiosa lezione d’umiltà) dei fallimenti e dei miraggi, la frase ‘è una verità scientifica definitivamente dimostrata’ è un ossimoro.
Per fare questo noi di Bene Comune dovremmo riuscire, per quel che riguarda la rubrica ‘Scienza’ , di andare aldilà di una critica serrata ai falsi miracoli della scienza spettacolo (cosa per altro doverosa ma limitante) per osare parlare di scienza in quanto tale, parlare cioè di argomenti scientifici non ‘commentare filosoficamente’ la scienza. Di fatto questo è quello che si fa per la politica o l’economia ed è importante che si ‘rompa l’accerchiamento’ del pensiero unico proprio al suo cuore: nell’idolatria di un feticcio scientifico dispensatore di certezze inoppugnabili.
Allora cominciamo a far luce, partendo magari dalla falsa opposizione tra fede e scienza quando se mai è proprio vero il contrario, essendo la scienza la migliore alleata della fede, chi sa ad esempio che tutte gli scienziati che hanno dato il nome alle misure fisiche (Volta, Faraday, Omh, Ampere, Pascal..) erano tutti ferventi uomini di fede ? Chi si è mai interrogato sul fatto che la scienza abbia sconfitto per prima (molto prima della filosofia ed in maniera molto più convincente) il materialismo positivista da più di cento anni ?
Sbeffeggiamo allora le malinconiche scempiaggini della stampa generalista sulle imprese mirabolanti della tecno scienza, ma nel frattempo coltiviamo un lettore critico e curioso sulla scienza, quella vera.       

                                                                                                     Alessandro Giuliani

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Negli ultimi anni è emersa una tesi che sostiene come davanti alle decisioni di fine vita il diritto debba farsi “mite”, ovvero non possa “intralciare” decisioni che competerebbero alla c.d. autodeterminazione del singolo, e ciò a prescindere dalle valutazioni etiche e morali della comunità. La questione di fondo è questa: entro che confini la legge può scegliere al posto dei consociati? E’ solo il criterio del neminem laedere (cioè tutto posso fare, purché non danneggio altri), che deve orientare il legislatore?

Il nostro sistema giuridico prevede abitualmente reazioni e sanzioni quando la decisione del singolo nuoce agli interessi degli altri. Quando le scelte individuali non ledono interessi patrimoniali o personali di alcuno restano nell’ambito di scelte libere.

Ma l’ordinamento ci ricorda che anche comportamenti non dannosi per altri possono comunque essere illegittimi. E’ il caso del lavoratore: nessuna legislazione potrà mai ammettere prestazioni continuative e ininterrotte a tal punto da andare contro la dignità e l’integrità fisica della persona. Ove, dunque, operi un giudizio di disvalore, anche davanti ad atti non pregiudizievoli per altri, l’ordinamento può apprestare norme di protezione, in nome dell’interesse della comunità nel suo insieme e di chi per debolezza o necessità potrebbe agire contro se stesso.

L’ordinamento non ammette neanche che l’azione “ingiusta” del singolo, pur non dannosa per altri, sia compartecipata o facilitata dagli altri consociati; si circoscrive in un ambito personale ed è esercitata attraverso atti personalissimi e non delegabili. E’ il caso dell’uso di stupefacenti: drogarsi fa male, ma il consumo entro certi limiti è tollerato dall’ordinamento, non così però lo spaccio di stupefacenti. E’ il caso del suicidio: privarsi della propria vita non è accettato dai consociati, ma il tentativo di suicidio è immune da sanzione, non così per l’assistenza al suicidio che è un reato.

Sulla stessa linea, allora, è possibile rifiutare una cura pur quando ne va della propria salute, ma non esiste un correlativo diritto a coinvolgere il medico per porre fine alla propria esistenza.

Sul piano giuridico significa che quando la scelta del singolo si muove in disarmonia con il valore intrinseco della persona – bene giuridico in sé – essa rimarrà certamente libera, ma non potrà trasformarsi in pretesa giuridica, come se le norme possano fungere da sentinelle di atti autolesivi.

La stessa spietata conseguenza si verificherebbe ove si ammettesse la sovranità dell’autodeterminazione con riferimento a dichiarazioni di cittadini che, in piena salute, dettano la loro legge per il caso di malattie del tutto ipotetiche e lontane. Proprio nelle situazioni di fragilità c’è infatti bisogno di garanzie e solidarietà piuttosto che di rigidi protocolli predeterminati da volontà dissociate dagli eventi e, dunque, fragili, che un “diritto mite” inesorabilmente lascerebbe eseguire anche contro la valutazione del medico.         

                                                                                                    Alberto Gambino

 

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