Iniziamo con un inquadramento quantitativo del problema e per farlo riportiamo un grafico tratto dalla rivista inglese Nature (il giornale scientifico più blasonato insieme all’americana Science) e segnatamente da un articolo del biochimico e premio Nobel (recentemente scomparso) Max Perutz (M.F. Perutz (1999) Will Biomedicine outgrow support ? Nature (399): 299-301).
La figura 1 riporta sull’asse orizzontale gli anni dal 1920 al 2000 e sull’asse verticale, in scala logaritmica (per cui le unità sono scalate di un fattore moltiplicativo 10 e quindi la distanza tra 100 e 1000 è la stessa che tra 1000 e 10000) gli iscritti a tre società scientifiche americane: quella dei chimici (American Chemical Society), dei fisici (American Physical Society) e dei biologi sperimentali (FASEB).
Il grafico si riferisce agli Stati Uniti ma in altri paesi la crescita è ancora più drammatica visto che gli Stati Uniti, già negli anni Trenta avevano iniziato l’incremento esponenziale degli addetti alla ricerca, incremento che è stato più ritardato (e quindi più esplosivo) in altre nazioni.
Notiamo poi come, mentre i fisici ed i chimici mostrano nel grafico già di essere ‘arrivati a saturazione’ (tenendo conto della scala adottata nel grafico questo implica una crescita lineare negli anni) l’incremento dei biologi (qui si tratta solo di una minima porzione della biologia, riportare l’intero campo della ricerca biomedica nello stesso grafico con altre scienze sarebbe stato impossibile in quanto il numero dei ricercatori in biomedicina è di ordini di grandezza superiore a quello dei fisici e dei chimici) non mostra segni di rallentamento continuando nel trend esponenziale (lineare in scala logaritmica).
Come si nota l’incremento a partire dagli anni ‘40 è impressionante per cui, ad esempio, il numero di scienziati tuttora viventi è enormemente superiore a tutti gli scienziati che si sono succeduti dall’antichità ad oggi. È chiaro che questo si potrebbe anche dire per la popolazione nel suo complesso ma, nel caso della scienza, per le peculiari caratteristiche di questa attività umana, questo provoca delle grandi distorsioni e una crisi sostanziale di cui cercheremo di delineare i tratti essenziali.
Fig. 1: Incremento degli appartenenti a diverse società scientifiche statunitensi
In un’ottica puramente economicista ci dovremmo aspettare che il prodotto della scienza (in termini ad esempio di lotta alle malattie, scoperta di nuove visioni della natura, risoluzione di problemi globali..) si sarebbe dovuto incrementare allo stesso modo del numero di addetti. Le cose però non sono andate così. Solo negli ultimi anni, e molto faticosamente, una nuova visione della natura si sta affacciando (vedi il libro divulgativo ‘Un Universo Diverso’ del Premio Nobel per la fisica del 1998 Robert Laughlin edito in Italia da Codice) laddove la grandissima maggioranza degli sforzi della fisica di base sono guidati da teorie definite settanta anni fa. Sul versante applicativo, l’odierna esplosione della tecnologia digitale segue a grandi linee principi scientifici stabiliti attorno a sessanta anni fa.
La figura 1 raggiunge il massimo del paradosso quando la si confronta con il crollo di nuovi farmaci immessi sul mercato a partire dagli anni ottanta del secolo scorso (Cohen FJ (2005) Macro Trends in Drug Discovery. Nature Drug Discovery 4 (78-84). Mentre il periodo dal 1940 ai primi anni ‘60 è stato il periodo d’oro dell’efficacia della ricerca farmaceutica (nonostante la sbandierata potenza delle biotecnologie e della ‘rivoluzione molecolare’ delle scienze biologiche del XXI secolo di cui il sequenziamento del genoma umano risalente a dieci anni orsono con regine inglesi e presidenti USA a complimentarsi con gli scienziati è stato il culmine mediatico) la capacità del sistema ricerca di produrre reali benefici nella cura delle malattie è poi malinconicamente diminuita, con un crollo verticale negli ultimi venti anni.
Allo stesso tempo, quei pochi farmaci realmente innovativi che ancora si riescono a produrre costano sempre di più in ricerca e sviluppo. Il problema è che ad un aumento di nuovi farmaci ‘teoricamente attivi’, perché dimostratisi efficaci nelle prime fasi della sperimentazione su sistemi semplici come le cellule in coltura, corrisponde il loro quasi totale fallimento nelle fasi finali della sperimentazione. In figura 2 è riportato questo ‘collo di bottiglia’ dove si vede il lunghissimo iter di ricerca e sviluppo di un farmaco nelle sue varie fasi, per averne un’idea quantitativa si immagini che alla base della ‘montagna’ abbiamo circa 10000 molecole promettenti che, alla fine, danno vita a due o tre farmaci efficaci.
La teoria insomma non funziona più. Non riesce più ad esportare con successo le scoperte che avvengono nelle situazioni artificiali del laboratorio fuori dalle mura degli Istituti di Ricerca nel mondo reale dei pazienti.
Questo significa che ciò di cui abbiamo bisogno non è un aumentato ‘sforzo economico’ in grado di ‘far andare avanti’ l’applicazione della scienza di base su linee già segnate(da qui la sostanziale ambiguità del termine ‘ricerca traslazionale’ con cui si riempiono la bocca i procacciatori di fondi per la ricerca) ma di costruire ‘nuove linee’, di ‘ripartire da capo’ con dei principi totalmente nuovi.
Al contrario, continuare sulla stessa strada aumentando le dimensioni di un sistema già fortemente auto-referenziale per cui si pubblica (e quindi si acquisisce credito nella comunità scientifica e conseguentemente contratti di ricerca) solo se si seguono le ‘idee dominanti’ ha a lungo andare degli effetti catastrofici sulla reale capacità di innovazione del sistema ricerca nel suo insieme come ampiamente dimostrato da recenti studi (vedi Rzhetsky et al. (2006) PNAS (103): 4040-4045, Ioannidis (2005) PloS Medicine 2(8): e124, entrambi disponibili sul Web). Ragionamenti analoghi valgono anche al di fuori delle scienze biomediche nel campo della ricerca di base fisica e chimica (C.Modonesi et al. (2008) Annal.Ist.Sup. Sanità 44 (3): 211-213).
Il sistema per auto perpetuarsi tende allora a mostrare evidenti distorsioni come l’invenzione di ‘nuove malattie’ inesistenti per giustificare artificialmente la necessità di un costoso apparato di ricerca, è il fenomeno del ‘disease mongering’ molto ben descritto in un articolo del British Medical Journal di qualche anno fa ( Moynihan R, Heath I, Henry D (2002). Selling sickness: the pharmaceutical industry and disease mongering. BMJ 324 (7342): 886–91) oppure il rilievo mediatico dato a tutto sommato inesistenti avanzamenti della scienza con lo scopo di far aumentare il valore delle azioni di imprese biotecnologiche (AS Wilkins (2007) BioEssays (29): 1179-1181).
Il gigantismo dell’impresa scientifica provoca un altro effetto indesiderato che ha gravi ripercussioni culturali: l’affermarsi di una generazione di scienziati sempre più ignoranti perché sempre più specializzati e quindi incapaci (e sostanzialmente poco interessati) di quella visione ampia che è necessaria per ogni reale avanzamento scientifico, artistico, culturale e in genere spirituale.
Da questi dati si potrebbe forse ricavare un totale ribaltamento circa la necessità di aumentare i fondi alla ricerca, ma questa sarebbe una conclusione ancora peggiore. Cercherò allora di impostare la pars construens dell’intervento in cui proverò a convincervi che, mentre non abbiamo alcun bisogno di inflazionare l’esercito dei ricercatori ‘ammassati’ in progetti stanchi, super-specialistici e sostanzialmente improduttivi, abbiamo un grande bisogno, specialmente nel nostro paese, di un grande incremento di ‘cultura scientifica’. Di quella vera però.
Allora cominciamo con lo scegliere una definizione a grandi linee di ‘cultura’ che potrebbe essere la ‘consapevolezza del ruolo giocato dal nostro particolare talento (specializzazione, campo di interesse, mestiere, attività..) nell’intero universo del sapere umano’. È una definizione molto grossolana ma almeno salva il senso della denominazione ‘Università’ che diamo ai luoghi deputati all’istruzione superiore.
In questi anni in cui le ideologie hanno mostrato, una dopo l’altra, il loro sostanziale fallimento, condito da violenze mai viste nei secoli precedenti, anni in cui i problemi importanti si pongono nell’arena dell’ecologia e della possibilità di abitare il mondo come specie biologica, la cultura scientifica diventa quella più importante per poter prendere delle decisioni ragionevoli sugli argomenti realmente importanti.
Il dibattito politico si nutre invece in gran parte di questioni legislative, di metodologia della politica, di funzionamento di organismi e strutture che, se avevano la loro ragion d’essere duecento anni fa, ora somigliano sempre di più a delle discussioni di etichetta su una nave che affonda. Ecco allora che saper interpretare una statistica, comprenderne limiti di applicazione e scala di riferimento, conoscere di cosa si sta parlando quando si discute di entropia ed efficienza delle macchine, di tecnologie ‘sostenibili’ (altra parola che sta diventando veramente irritante in quanto marchio di ‘bontà’ applicato alla rinfusa spesso senza alcun pensiero profondo), di come organizzare la ‘decrescita’ in termini energetici e di sostentamento delle popolazioni diventa non solo importante da un punto di vista del bene comune della popolazione ma anche un salutare ‘bagno di onestà’ in una cultura eminentemente artigiana come quella scientifica dove il raggiungimento di un risultato ripetibile travalica e rende obsolete barriere ideologiche e pregiudizi.
La scienza italiana ha una luminosa tradizione artigiana, lontanissima dalle banalità ideologiche di certa scienza anglosassone e dalla filosofia di bassa lega di certe correnti dell’Europa del nord. I nostri scienziati, nonostante i piagnistei sulla scarsa considerazione della scienza (anzi io direi proprio grazie a questa scarsa considerazione che ha tenuto lontano buona parte della nostra cultura scientifica dai miasmi della modernità in disfacimento) appena fuori dall’Italia conquistano senza sforzo posizioni preminenti ovunque vadano.
Allora, dovendo ormai essere chiaro che la ‘diffusione festivaliera’ della cultura scientifica non funziona in quanto continua a perpetuare l’inganno ‘divulgativo e acritico’ in salsa ‘post-moderna’ e spettacolare, i fondi per la ricerca scientifica dovrebbero non solo essere aumentati ma soprattutto:
1) Privilegiare le attività ad alto contenuto di ‘manodopera’ (addetti alla ricerca) rispetto ad attività con alto contenuto in strumentazione. Questo è il momento ideale per farlo in quanto abbiamo molto più bisogno di teoria che di applicazione e la rete ci consente di lavorare di ‘ragione ed arte’ con dati prodotti altrove.
2) Connettere strettamente gli aspetti più propriamente tecnici a quelli culturali richiedendo ad esempio revisori (chi deve giudicare della congruità del progetto) al di fuori del campo di interessi del progetto proposto. Questo spingerebbe automaticamente gli scienziati ad approfondire la ‘portata generale’ dei loro lavori.
3) Privilegiare il lavoro individuale su quello collettivo. La scienza come ogni attività artistica, si basa fortemente sul genio del singolo o comunque dell’interazione di una piccola cerchia di persone legate da legami profondi di stima e amicizia. Grandi ed anonime ‘reti di eccellenza’ come quelle richieste dai finanziamenti UE alla ricerca sono solo dei carrozzoni che servono a ribadire il già noto, il già detto ed assodato senza alcuna possibilità di reale innovazione. Questo era ben presente a chi si occupava di politica scientifica fino a settanta anni fa. Un luminoso esempio è l’opera dell’oscuro e bravissimo chimico organico Roberto Intonti (1904-1968), da noi commentata in un precedente articolo di bene comune (Capre e fondi di caffè, il lato umano della scienza: https://www.benecomune.net/news.interna.php?notizia=432) .
Una ricerca come quella di Intonti, in cui un’unica persona si occupava dell’analisi completa dello sviluppo e della rilevanza ‘ecologica’ in diverse condizioni di applicazione ora prevederebbe lo sforzo congiunto di decine di misteriose figure intermedie di ‘project leaders’, ‘product managers’, ‘marketing advisors’.. (già l’uso troppo protratto di termini intraducibili dovrebbe mettere sull’avviso..).
L’Italia ha di fronte delle meravigliose prospettive in questa via di scienza ad alto contenuto inventivo e bassa intensità di capitale, dove ciò che fa la differenza è l’idea del singolo e non esiste ‘materia umile’ che non possa essere nobilitata (meglio i fondi di caffè che cento finte scoperte di geni che causano la malattia tal dei tali). Qualcosa che da noi non manca, se solo avessimo la voglia di coltivare teste pensanti e libere.
Per far questo dovremmo avere la voglia ed il coraggio di andare a scovare quelle migliaia di ricercatori (giovani e meno giovani) che nel nostro paese hanno potuto prosperare (in termini intellettuali sia chiaro non certo di riconoscimento) grazie alla totale incuria del nostro sistema di ricerca nazionale che ha avuto il paradossale vantaggio di imporre con meno protervia ed efficacia che negli altri ‘paesi sviluppati’ un pensiero unico sostanzialmente perdente … un’ impresa di scavo tutt’altro che impossibile ed ora sempre più necessaria.