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Si torna a discutere – in Belgio, stavolta – sulla possibilità di estendere ai minori e ai soggetti inabilitati e incapaci, la possibilità di ricorrere all’eutanasia. Sempre, ovviamente, in un clima in cui si contrappongono sensibilità e opposte passioni, tendenze politiche, visioni etiche e religiose, in un clima insomma quasi da stadio, in cui ci si colpisce a suon di slogan e colpi mediatici.

E così, a chi accusa i politici belgi di tornare al nazismo, che infatti aveva un analogo programma di soppressione eugenetica dei disabili (ma la lista dovrebbe andare ben al di là della Germania del Reich, e comprendere molti altri Stati, in molte altre epoche), si oppongono i sostenitori del progetto con argomenti fondati sulla pietà, sull’umanitarismo, sul desiderio di alleviare sofferenze atroci, sulla volontà di non dar seguito a vite indegne di essere vissute.
Ora, se si lasciano da parte sia gli argomenti apocalittici, sia quelli pietistici, emerge il vero nodo di questa vicenda e di questa discussione bioetica; che non è tanto quello di una deriva eugenetica (pur se il problema, innegabilmente, esiste) della medicina, quanto il consolidamento progressivo di una antropologia coerente e compatta, tipica della nostra tarda modernità. Una visione dell’uomo, insomma, centrata sul valore assoluto dell’autonomia, unico dogma indiscusso e indiscutibile dei nostri tempi.
Questa idolatria dell’autonomia soggettiva è alla base di moltissime, se non di quasi tutte, le recenti questioni della bioetica; dalla fecondazione eterologa al tema dell’identità di genere, dalla clonazione terapeutica all’uso delle staminali embrionali, dal testamento biologico all’eutanasia, l’idea che ci portiamo dietro è che l’uomo sia tale nella misura in cui esercita e può esercitare della propria autonomia decisionale, disponendo di sé sovranamente, senza che alcuna legge eteronoma (morale, religiosa o giuridica che sia) possa pretendere di vincolarlo.
E’ un’immagine di uomo forte, in cui la dignità è la conseguenza della propria volontà libera e piena, che rivendica per sé il diritto di decidere in modo del tutto potestativo del proprio destino e delle proprie possibilità d’azione, con l’unico limite del rispetto dell’autonomia altrui. Ed è tanto radicato, questo paradigma, che stentiamo a riconoscerne l’operatività, quasi fosse parte integrante della coscienza di tutti noi; non lo vediamo dietro alle leggi sul divorzio, dove invece sta alla base dell’idea che la volontà non può mai, per definizione, essere limitata dalla legge, e dunque deve necessariamente essere “temporanea”; sta dietro le legislazioni sull’aborto, ove l’autonomia della donna non può essere limitata da una gravidanza non desiderata; sta alla base delle richieste di fecondazione artificiale, ove la volontà di divenire genitori deve poter determinare tempi, modi, condizioni e possibilità di controllo sulla filiazione; sta sotto le richieste di riconoscimento delle mille “altre” forme di famiglia che il singolo soggetto decide di formare, a suo insindacabile giudizio; sta nell’ideologia del gender, per cui l’identità sessuale di ciascuno non è determinata biologicamente, ma per un atto di volontà del singolo, e per cui si frammenta in ben più delle due, semplici possibilità di “maschio” e “femmina”.
Sta, tale mito dell’autonomia soggettiva, ovviamente dietro alle richieste di poter gestire, controllare, definire e far attuare la propria morte; c’è l’idea che solo finché il soggetto abbia la possibilità di disporre di sé in piena autonomia la vita sia degna di essere vissuta, l’idea che il valore della persona si identifichi con l’esercizio libero della propria volontà.
Ma come spesso accade, non è sul piano del confronto teoretico che si rivela la natura ideologica e mistificante di un modo di pensare, o di un paradigma culturale. E così accade che nel desiderio di assolutizzate l’autonomia, privando l’etica e il diritto di ogni consistenza oggettiva, e lasciando sempre e comunque al singolo la possibilità di decidere per sé in modo insindacabile, tale prospettiva finisca per negare se stessa.
E’ il caso, per l’appunto, dell’eutanasia per soggetti disabili, o per i minori (già legge in Olanda, come si sa); casi in cui un soggetto, per definizione non autonomo, viene soppresso in nome di quella stessa idea di uomo che ha come suo fondamento proprio il valore dell’autonomia. Se si vuole, il caso non è molto diverso da quello dell’eutanasia per soggetti in stato vegetativo permanente: in tutti questi casi, dall’idea che sia sempre e solo il soggetto a poter decidere se la sua vita valga la pena di essere vissuta, e che lo Stato debba assecondare pubblicamente tale volontà, si arriva inesorabilmente all’idea che ciò valga anche ove tale volontà non vi sia, ma sia soltanto presumibile, e ancora all’idea che terzi soggetti possano determinare quale sia il contenuto della volontà autonoma di una persona. 
Concedere l’eutanasia alle persone incapaci, o ai minori, non è tanto un ritorno a ideologie del passato, o all’eugenetica nazista, perché del tutto diverso è il riferimento che motiva tali scelte. Ma nondimeno è una grave scelta, perché è l’epilogo di una ideologica rappresentazione dell’uomo, la quale finisce per dimostrarsi aporetica e totalmente inconsistente.
La sfida, allora, non è solo quella di impedire che le legislazioni accolgano tali possibilità, ma lottare perché una differente visione della persona si affermi e si ponga come modello per l’ordinamento; con la consapevolezza che questo richiede tempi infinitamente più lunghi, certo inadatti ad uno scontro sempre più solo mediatico e condizionato da forti interessi economici.
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