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Articolo pubblicato su Avvenire il 22/10/2009
rnNel comunicato stampa relativo all’autorizzazione in Italia della cosiddetta pillola abortiva (Ru486), l’Aifa – sottolineando non senza enfasi la correttezza del percorso seguito («assolutamente rispettoso», «scrupoloso iter», «massima tutela della salute del cittadino») – afferma che verranno rimandate a «Stato e Regioni le disposizioni per il corretto percorso di utilizzo clinico del farmaco all’interno del servizio ospedaliero pubblico, così come previsto dagli articoli 8 e 15 della legge 194 del 1978».

In tale rinvio, secco e perentorio, dove si dà per scontato che l’utilizzo del farmaco prima o poi avverrà, si annida in realtà il grave errore logico di tutta questa vicenda. Ora, gli articoli 8 e 15 della legge sull’aborto richiamati dall’Aifa si riferiscono alle modalità dell’interruzione della gravidanza e al relativo aggiornamento del personale sanitario. Queste norme parlano di «degenza», di «intervento» operatorio abortivo «praticato dal sanitario», di «tecniche» di interruzione della gravidanza. I motivi sono evidenti: tutta la legge 194 è stata scritta con riferimento all’intervento chirurgico abortivo. Anche il periodo di dissuasione – dal colloquio fino alla settimana di riflessione – si compie entro termini cadenzati sulla praticabilità di quell’intervento. E, allo stesso tempo, la dissuasione-riflessione ha una sua ragionevole durata proprio in quanto strumento utile a scongiurare la decisione di porre termine all’esistenza di un essere umano annidato in utero. Tra i contenuti giuridici della 194, oltre la salute (psicofisica) della donna, c’è perciò, anche un altro bene: la vita del feto (con insospettata chiarezza, l’articolo 1 della stessa 194 precisa che lo Stato «tutela la vita umana dal suo inizio»). Dal bilanciamento tra i due beni (peraltro assai disomogenei) ne scaturisce la procedura di garanzia della legge, con la dissuasione, i tempi di riflessione, la scelta finale. Il mancato rispetto di tale procedura configura reato, con pena detentiva.
  
La 194 legittima esclusivamente quelle pratiche abortive che si realizzano in attività (interventi medici) svolte con perizia e manualità.
  Le fattispecie giuridiche che vi ruotano attorno risentono di questa realtà: l’accertamento della gravidanza da parte del medico, l’invito a soprassedere per sette giorni, la presenza ininterrotta del medico durante l’intera fase abortiva. La pillola abortiva, invece, può essere solo «prescritta» da un medico – e occorre farlo con tempestività, pena l’inefficacia del farmaco. La fase abortiva sarà poi più lunga di quella chirurgica: durerà due o tre giorni, ma in caso di complicazioni anche quindici (e il medico sarà ‘fisicamente’ presente durante tutta la durata di questa fase?); poi si tratterà di osservarne gli effetti e solo allora, in caso di necessità, intervenire chirurgicamente. Ma una tale profonda rilettura del significato tecnico-giuridico della legge 194 può essere sbrigativamente data da un’autorità amministrativa come l’Aifa?
 Può essa legittimare lo Stato e le Regioni a dare avvio all’utilizzo del farmaco, dando per risolto il problema dell’applicabilità della 194, così unilateralmente interpretata?
Osservo nuovamente che ci troviamo davanti a una norma penale che non si può applicare per analogia peggiorando la soglia di tutela dei soggetti coinvolti, e nel caso rilevo anche la posizione – peraltro già debole – del feto. Lascia poi altrettanto perplessi il fatto che si rimandi alle Regioni l’applicazione dell’articolo 15 della 194, il quale si riferisce all’aggiornamento delle «tecniche» abortive, come se l’assunzione di una pillola fosse diventata una ‘tecnica medica’ (a meno di non intenderla quale ‘tecnica medica fai da te’, ovviamente non prevista dal nostro ordinamento). Si tratta, invece, di un’ farmaco’ (che sembrerebbe curare la ‘malattia’ della gravidanza) assunto su prescrizione: e tale ovvietà è incontestabile, altrimenti l’Agenzia del farmaco non si capirebbe a che titolo è intervenuta.
A questo punto, correttezza istituzionale vuole che, prima di rendere operativa la decisione dell’Aifa, intervenga una posizione chiarificatrice da parte dell’autorità pubblica competente, sia essa il Ministero della Salute o il Parlamento.
  Se, poi, si optasse comunque per quest’opera creativa di inserimento dell’aborto chimico tra le pratiche abortive della legge 194, occorre allora che vengano urgentemente definiti gli adeguati contrappesi di carattere informativo-preventivo necessari per riequilibrare la dinamica dell’aborto chimico, che resta comunque assai diversa da quella dell’aborto chirurgico. Anche per questo motivo si afferra il senso della generale soddisfazione, che in sede politica ha salutato (sembrerebbe con sollievo) tale decisione dell’Aifa, soltanto ricollocando quest’ultima nell’ambito di una mera ricognizione tecnico­scientifica. Mentre una decisione definitiva sul tema, per diventare effettivamente operativa, richiede una cornice giuridica di legittimità (o di illegittimità) di competenza dello Stato.

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