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Per rispetto dei lettori, ma soprattutto per onestà intellettuale, bisogna giocare a carte scoperte: non possiamo che compiacerci per l’iniziativa assunta dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, in relazione al caso di Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo persistente per la quale è stata autorizzata, da una sentenza, la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione.

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Il governo, com’è noto, ha emanato un atto di indirizzo con il quale ha escluso che le strutture pubbliche e quelle private convenzionate con il sistema sanitario nazionale, possano dare attuazione alla sentenza. Salvo incorrere in “gravi irregolarità” che comportano ovviamente l’accertamento delle responsabilità.rn

Ora non vogliamo inerpicarci in una riflessione giuridica che già trova ampio spazio nel dibattito pubblico, sulle agenzie di stampa, nelle stanze della politica come sulle pagine dei quotidiani. Piuttosto ci piace sottolineare come, dinanzi ad una battaglia dall’altissimo portato antropologico e valoriale trascinata nelle stanze dei tribunali, per ottenere una sentenza che draconianamente tagliasse il confine tra la vita e la morte, ci si stupisca che ci sia chi si  oppone con tutti i mezzi a disposizione. Senza peraltro forzare la legalità o infrangere il diritto positivo. Non è infatti in discussione che la sentenza sia passata in giudicato, e che quindi legittimamente il tutore possa mettere in atto quanto gli è stato consentito dal giudice. Ma quello stesso magistrato gli ha dato la facoltà di agire, ma non gli ha intimato di sospendere l’idratazione e l’alimentazione. Dunque, la responsabilità è tutta a suo carico, non può cioè pretendere che una struttura pubblica si presti forzosamente a realizzare atti non attinenti alla tutela della salute. Anche perché, come è stato ampiamente dimostrato, la missione della cura è nel dna del nostro sistema sanitario, così come lo hanno voluto i nostri riformatori. Nel cui orizzonte non c’era traccia alcuna dell’eutanasia che ripugnava tanto alla coscienza dei padri costituenti che avevano toccato con mano gli orrori della guerra e le derive eugenetiche del nazismo, quanto ai legislatori italiani che avevano delineato, negli Anni Settanta, i contorni della riforma sanitaria.

Ma c’è un punto sul quale è massima la confusione e che invece va chiarito, anche in vista di una legge sul fine vita, a beneficio di tutti i soggetti coinvolti nelle situazioni simili a quelle di Eluana: genitori, familiari, medici e personale sanitario. Non vi è dubbio che sospendere l’idratazione e l’alimentazione, ovvero l’acqua e il pane, che a questi pazienti vengono forniti attraverso un sondino nasogastrico o una “peg”, altro non è che una forma di eutanasia passiva. E’ questo il giudizio che davvero ci divide da quei settori del mondo sanitario e della politica che sostengono la liceità della sospensione. Asseriscono, infatti, che si tratta di una terapia medica e che pertanto appartiene alla sfera della tecnicalità sanitaria. Su questo punto temiamo davvero che le nostre posizioni siano irriducibili, così come sull’indisponibilità della vita umana. Criterio, quest’ultimo, che connota tutte le battaglie che si combattono nelle sedi internazionali per la moratoria sulla pena di morte. Ma se si tratta di una persona in stato vegetativo persistente, d’incanto la fermezza sul rispetto della vita umana, trova un incomprensibile affievolimento. Che solo un temporaneo ottundimento delle coscienze e un’improvvisa miopia prospettica possono spiegare, ma non giustificare.

* Domenico Delle Foglie è giornalista, portavoce di Scienza & Vita. Chiamato nel 1996 dal direttore Dino Boffo ad “Avvenire” come caporedattore centrale, dopo soli tre anni ne diventa vicedirettore. Incarico che lascia nel 2007, dopo aver guidato la comunicazione del Comitato Scienza & Vita nel referendum sulla procreazione assistita. Nella primavera 2007 ha svolto le funzioni di coordinatore generale del Family Day. Continua la sua attività giornalistica come editorialista per l’Avvenire, l’Adige e La Gazzetta del Mezzogiorno.

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