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La notizia dei cinque embrioni umani clonati dall’azienda californiana Stemagen non giunge inattesa e, soprattutto, non indica un percorso obbligato. Ci sono prospettive (e sfide) più importanti.

Le cellule staminali si sono presentate fin dall’inizio come un capitolo speciale della bioetica. Sembrava infatti esserci un argomento molto forte per rintuzzare l’obiezione che questo è uno dei casi nei quali la scienza dovrebbe accettare di autolimitarsi, cioè di non volere la sperimentazione e/o la realizzazione di qualcosa che pure è tecnicamente possibile. Alla promessa di aprire vie finalmente risolutive per la cura di terribili malattie (il Parkinson piuttosto che l’Alzheimer o altre patologie degenerative) appare in effetti difficile resistere. E tuttavia quella promessa si va sempre più decisamente dislocando su un terreno meno conflittuale dal punto di vista della valutazione morale. La scienza, che aveva posto il problema, rende disponibili anche gli strumenti per superarlo. E così una delle ragioni che possono spiegare la reazione abbastanza tiepida degli stessi addetti ai lavori ai risultati ottenuti dal gruppo guidato da Andrew French va cercata proprio nella consapevolezza che, per curare chi soffre, sono probabilmente altre le strade da battere. Le staminali che dimostrano di “funzionare”, almeno per il momento, sono solo quelle cosiddette “adulte”, che non vengono cioè ricavate creando e distruggendo embrioni. Ci sono poi altre tecniche che appaiono in grado di garantire in futuro qualcosa di molto vicino alla totipotenza delle staminali embrionali senza far iniziare il processo di una nuova vita e dunque senza sollevare conflitti etici. Si pensi soltanto, per restare agli esempi più clamorosi del 2007, allo studio pubblicato in gennaio da «Nature Biotechnology» sulla versatilità e le straordinarie potenzialità delle cellule ricavate dal liquido amniotico e alle ricerche condotte dalle università di Kyoto e del Wisconsin-Madison sulla “riprogrammazione” di cellule appunto adulte. È guardando a questi nuovi percorsi che Ian Wilmut, il padre della pecora Dolly, ha annunciato la sua intenzione di abbandonare definitivamente gli studi sulla clonazione.
Non si può però negare che il tema conserva una sua specifica valenza di attrazione e insieme disagio e resta per questo un efficace moltiplicatore di notorietà. Si potrebbe pensare che ciò dipenda dalla capacità della tecnica di stupirci con imprese sempre più ardite. È una tesi che non soddisfa. Non è dalla clonazione che ci si può attendere un vero salto di qualità rispetto a conoscenze già acquisite e alla nostra attuale capacità di dominare la natura. Si tratta, in fondo, di arrivare a fare con l’uomo quel che già si è in grado di fare con altre specie. È più difficile. I problemi “tecnici” che rendono altamente problematica l’utilizzabilità (soprattutto quella terapeutica) del “prodotto” tendono ad amplificarsi. Se si vorrà, tuttavia, si farà. Il vero problema è che qui rimane più difficile volere. Non per gli anatemi di questo o quell’apostolo della sacralità della vita, ma per una più immediata difficoltà antropologica, analoga a quella che si pone quando, come sta per accadere in Gran Bretagna, si punta ad ibridare ovuli di animale e nuclei umani per ovviare alla carenza di ovuli femminili. Non è l’embrione-chimera del quale impropriamente si parla, ma c’è certamente anche questa opzione nel futuro della scienza. La chimera, il clone. Ci muoviamo sulla linea sottile oltre la quale la libertà si rovescia in paura. Nella nuova fabbrica della vita l’identità dell’uomo non è più la certezza dei confini invalicabili di una specie e di una biografia. Nella Carta di Nizza l’Europa aveva già fissato alcuni anni fa il divieto almeno della clonazione riproduttiva. John Harris liquida questa inquietudine come una «combinazione di panico e pregiudizio». La conclusione, nei fatti, si dimostra affrettata, soprattutto se trovasse nuove conferme la tesi che la medicina può fare a meno della clonazione…
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