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rnLa notizia è di quelle che fanno pensare ad un romanzo di fantascienza, più che ad una seria e costosissima ricerca scientifica: il settimanale New Scientist ha reso noto che alcuni ricercatori dell’università di Newcastle, luogo di uno dei centri più avanzati di ricerca sulle cellule staminali, sarebbero riusciti a trasformare le cellule staminali del midollo osseo femminile in gameti maschili.

Il coordinatore della ricerca, più specificamente, ha precisato di aver sottoposto ad un bombardamento chimico le staminali ricavate dal midollo delle femmine di topo, e di aver così ricavato una sorta di ‘primo stadio’ di cellule spermatiche; ove la ricerca continuasse – ed a tal fine sono già state avanzate le richieste di autorizzazione alle autorità britanniche – i ricercatori dovrebbero riuscire, nel giro di qualche anno, ad ottenere con la medesima tecnica spermatozoi dal midollo osseo femminile anche nella specie umana.
I limiti tecnici finora evidenziati appaiono, a detta dei ricercatori coinvolti, superabili; ad esempio, il fatto che con la tecnica in esame si potrebbero generare solo femmine, posto che il midollo osseo femminile non conterrebbe il cromosoma Y, potrebbe essere risolto sviluppando una tecnica analoga e simmetrica a partire dal midollo maschile. O ancora, il fatto che in individui nati con tale tecnica si evidenzia una tendenza a sviluppare patologie genetiche, potrebbe essere superabile con un affinamento della tecnica medesima.
E infatti il problema, come sempre, non è clinico o tecno-scientifico, ma etico e giuridico.
Dal punto di vista etico questa tecnica ci mette di fronte ad uno dei miti più risalenti nella storia dell’umanità, quello dell’androgino, o se si preferisce alla figura dell’ermafrodito. Figure – queste – affascinanti e terribili, temute dagli stessi dèi (che infatti li combattono e li puniscono) e rifiutate dagli uomini. Figure che rappresentano ciò che ogni civiltà ha sempre considerato un male assoluto, ed ha esorcizzato confinandolo nello spazio indolore di un passato irrecuperabile, o nella pura fantasia: l’autonomia perfetta, la capacità creatrice solitaria.
In altri termini; se c’è una cosa cui le società umane hanno guardato, allo stesso tempo, con fascino e ripugnanza, è la possibilità che l’uomo generi la vita in solitudine, da sé. Perché questo, in fondo, significa che non abbiamo più bisogno dell’altro, che possiamo fare e stare da soli. Che la società, al limite, non ha un senso, e che se ne possa fare a meno.
In quasi tutto, infatti, possiamo fare a meno degli altri, ed evitare la fatica di metterci in relazione con chi, inevitabilmente, contesta le nostre pretese assolute di libertà e autonomia, in tutto tranne che in questo: la riproduzione. Per dare la vita, finora, c’era bisogno di un altro che cooperasse con noi; persino la fecondazione eterologa richiede la presenza di un altro, seppur anonimo, nascosto e del tutto passivo.
In qualche modo siamo su una via parallela a quella aperta dalla clonazione; con la differenza che in questo caso i figli sarebbero soggetti geneticamente diversi dai (o dal) genitori, ma sempre, in ipotesi, generati in solitudine.
Gli scenari, se si vuole, sono molteplici, e tutti sollevano problemi etici immensi; dalla donna che genera un figlio da sola, all’uomo che genera un figlio servendosi della donna solo per la gestazione, alla coppia lesbica che genera senza ricorrere a donatori di gameti.
Per il diritto la domanda che tali pratiche sollevano è, in fondo, una sola: è coerente con l’affermazione della parità tra i soggetti, con l’eguaglianza e, insomma, con la difesa della dignità personale (tutti valori costituzionalmente garantiti), far nascere individui che di principio avrebbero un solo genitore, e dunque individui per nascita svantaggiati e diversi da tutti gli altri? Certo, si può crescere anche con un solo genitore, ma questa è o una conseguenza di eventi specifici, o un’eventualità che il diritto non solo considera come un’ipotesi cui far fronte con misure di sostegno di vario tipo, ma che non può in alcun modo istituzionalizzare.
E poi: se la psicologia dell’età evolutiva ha chiarito ormai da tempo che la struttura eterosessuale della famiglia è funzione di una normale costruzione dei ruoli soggettivi e, in una parola, dell’individualità, può il diritto non tenerne conto, avallando pratiche di principio confliggenti con essa?
A voler complicare il quadro, se non lo fosse già abbastanza, i laboratori della stessa università hanno reso noto di aver prodotto un embrione utilizzando il materiale genetico di tre soggetti adulti; e ciò al fine, ovviamente nobilissimo, di evitare la trasmissione di alcune malattie genetiche (ad esempio, la distrofia muscolare). Ciò, da quanto si sa, si realizzerebbe grazie ad una tecnica che consentirebbe il trasferimento del nucleo di un ovulo fecondato entro un ovulo di un donatore esterno, precedentemente svuotato ed al quale sarebbe lasciata unicamente la parte responsabile della produzione dei mitocondri.
Il punto, ancora una volta, non è certo quello di sindacare le intenzioni e le finalità terapeutiche di queste pratiche; come detto, sono sempre, o quasi sempre, eticamente apprezzabili. La questione bio-giuridica è se la struttura familiare, responsabile della costruzione dell’identità soggettiva prima che dell’accudimento materiale dell’individuo, possa essere del tutto stravolta, e se tale stravolgimento possa essere non solo il frutto di eventi accidentali (morti, separazioni, nuove nozze, ecc…) ma di precise scelte di politica sociale e sanitaria, se possa insomma essere istituzionalizzata.
Mi pare che, al di là del dato ordinamentale, si debbano comunque praticare scelte improntate alla massima prudenza; a stravolgere le strutture familiari ci vuol poco, a ricostruirle moltissimo. E il rischio, come dicevo, è che si creino cittadini di serie B, figli di un dio minore con troppi o troppo pochi genitori, esposti più degli altri a difficoltà e traumi nella costruzione della loro identità.
Un proverbio dice: la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Forse non è troppo lontano dal vero.
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