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Entro la fine dell’anno, sulla base del parere favorevole espresso dall’Aifa, l’agenzia italiana per il farmaco, dovrebbe entrare in commercio la cosiddetta pillola del giorno dopo, la RU 486. E, come era prevedibile, si sono riaccese le polemiche intorno alla commercializzazione di questo farmaco abortivo.

Le polemiche sono di vecchia data, posto che di questa pillola si parla e si discute già da tempo, e perciò mi posso limitare a richiamare alcune considerazioni già oggetto di un contributo apparso l’anno scorso su Benecomune.net, cercando di dare maggiore spazio agli elementi di novità maturati nel tempo più recente.
Anzitutto vanno ribaditi i rischi legati all’uso di tale farmaco: nella letteratura scientifica internazionale, accessibile a chiunque si dia la pena di cercarla, si evidenzia come alla Food and Drug Administration, negli anni passati, siano stati segnalati centinaia di casi in cui l’uso del farmaco ha causato eventi trombotici, emorragici e infettivi letali per le pazienti cui era stato somministrato. Inoltre, stando ai dati forniti dal Sottosegretario Roccella, si registrano almeno 17 casi di decesso conseguenti all’interruzione di gravidanza effettuata con la RU 486.
In secondo luogo, molti osservatori avevano notato come l’uso della pillola abortiva potesse avere la conseguenza di far saltare l’impianto della legge 194, determinando una privatizzazione della scelta e della pratica abortiva medesima. Tale legge, era stato sottolineato, si costruisce intorno al principio secondo il quale la pratica abortiva debba essere, rigorosamente, una pratica pubblica, clinica, medica, e ciò sia al fine di valutare la ricorrenza delle condizioni di liceità dell’intervento, sia al fine di tutelare la salute della donna. L’introduzione della RU 486, invece, tende inevitabilmente alla privatizzazione della pratica abortiva, alla sua de-medicalizzazione, e per conseguenza alla riduzione dei controlli sia sulle condizioni e i presupposti sia, soprattutto, sull’iter clinico della pratica medesima.
Qualche novità, sul punto, sembra essere emersa nel dibattito politico e culturale più recente; si è infatti ribadito che la pratica abortiva, per quanto tecnicamente differente, ovvero chimica e non più chirurgica, debba comunque avvenire nel contesto ospedaliero, e nel rispetto dei principi e dei parametri fissati dalla l. 194. Non che queste precisazioni siano tali da far considerare il problema definitivamente superato: come sempre, ciò che davvero è essenziale è la concreta applicazione delle norme e dei protocolli sanitari. Se pertanto sulla carta si può osservare la volontà di mantenere l’impianto della legge sull’interruzione di gravidanza, e garantire il carattere pubblico dell’intervento, ciò che davvero sarà essenziale è la verifica delle concrete modalità di applicazione delle norme e di somministrazione del farmaco. Ma questa verifica, evidentemente, non potrà che essere fatta ex post.
Meritevoli di essere sottolineate, invece, sono le parole del Card. J. Lozano Barragan, Presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale sanitaria, il quale ha ribadito come l’opposizione della Santa Sede alla RU 486 non sia di tipo clinico, né legata a valutazioni etiche relative alle particolari modalità tecniche con cui si effettua l’interruzione di gravidanza, ma sia – per così dire – di principio. Ciò che in effetti rileva, e le parole di Barragan lo colgono benissimo, non è che si introduca una tecnica più o meno raffinata di aborto, ma che ancora e sempre si tratta di sopprimere una vita umana innocente. Chirurgico o farmacologico, l’aborto è sempre una pratica eticamente condannabile.
Ecco allora un aspetto su cui occorre richiamare l’attenzione: il rischio che la RU 486 sia percepita, e ancor più utilizzata, come un contraccettivo postumo, come un’alternativa alla pillola anticoncezionale e non come una tecnica propriamente abortiva. Se infatti è possibile che l’aborto chimico sia meno invasivo di quello chirurgico, è altrettanto possibile che socialmente ciò determini uno slittamento “semantico” dell’interruzione di gravidanza, tale da avvicinarla sempre più alla contraccezione e sempre meno all’aborto vero e proprio; e tale rischio, oggettivamente presente, è ancor maggiore nel caso di minori.
Questo sì, allora, costituirebbe un nuovo e inedito pericolo, perché la trasformazione dell’aborto in contraccezione “d’emergenza” ne negherebbe l’obiettiva tragicità, e porterebbe con sé un probabile incremento del ricorso all’interruzione di gravidanza.
Un rischio consistente, questo, al quale bisogna rispondere con un impegno culturale e con una buona pratica medica, e contro il quale tutti, ma in primo luogo il personale sanitario, siamo chiamati a impegnarci.
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