Una delle frasi più inquietanti riguardo alla scienza è l’affermazione di Francis Bacon per cui “Scientia est Potentia” [scienza è potenza]. Da una parte evoca il pensiero alchemico, dall’altra è presaga della connessione strettissima che sarebbe nata proprio all’epoca di Bacon, attorno alla metà del XVI secolo tra sviluppo scientifico, tecnologia e guerra come conquista del potere su uomini e cose.

E’ importante sottolineare come l’alchimia che nella società medievale era sostanzialmente considerata una attività eticamente neutra, nel Rinascimento comincia ad acquisire una reputazione sinistra probabilmente connessa agli eccessi legati alle pratiche magiche degli adepti. Nei secoli successivi questa reputazione sinistra è rimasta in qualche modo adesa alla scienza ‘Newtoniana’ (non a caso un grande alchimista) ed alle sue supposte o reali brame di ‘controllo del mondo’. Forse questa nefasta connessione non avrebbe potuto essere evitata. Il potere personale tende inevitabilmente a trasformarsi in potere politico e a sua volta l’osservazione tende a divenire manipolazione e non sempre per scopi benefici.

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Ciò che a noi sfugge è proprio come Newton considerasse le cose che studiava: egli descriveva il fenomeno della ‘gravità’ che a noi appare una normale regolarità dell’ Universo e facilmente verificabile nella nostra vita quotidiana, ma lo scienziato inglese intendeva la ‘gravità’ come un concetto magico alchemico. Non c’è niente di ‘fisico’ (nel senso di materiale) nel modo con cui Newton descrive la gravità, ciò che egli fà è semplicemente descrivere in maniera matematica una proprietà che guida le relazioni fra i corpi. Mentre un alchimista del tempo non aveva alcuna difficoltà ad accettare l’idea di un’azione a distanza implicita nel concetto di gravità, ancora oggi ci sono delle dispute accesissime sulla natura della forza gravitazionale e i gravitoni, una sorta di istanziazione materiale di un concetto tutto sommato magico come la gravità, non sono ancora stati individuati in maniera inoppugnabile nonostante grandi e reiterati sforzi di ricerca. A questo punto si capisce come mai ancora ai nostri giorni, la scienza, la religione e l’occulto siano così intrecciati e da dove vengano molte interminabili discussioni e quanto debole sia il tentativo positivista di elevare il sapere scientifico su un piedistallo di oggettivo ed inevitabile ‘progresso’.  Gli orrori dei programmi di eugenetica, portati avanti per il bene della società da illustri e rispettati scienziati fino a pochi decenni addietro (e purtroppo sempre risorgenti sotto mentite spoglie nonostante gli orrori della Shoà e di altri genocidi del secolo scorso) sono figli della scienza ‘razionale’. Il colonialismo ed il razzismo hanno avuto giustificazioni scientifiche dal cosiddetto Darwinismo sociale, così come la smania di prevalere delle varie nazioni alla base delle guerre più sanguinose che la storia ricordi. Il ricordo di queste esperienza chiaramente influenza il dibattito recente sull’etica della scienza.

rnIl legame tra la conoscenza e la guerra era presente probabilmente fin dall’inizio della storia umana ma lo sviluppo delle armi da fuoco provocò una transizione improvvisa in questo rapporto. Per la prima volta nella storia dell’ uomo una persona debole, vigliacca e maligna poteva prevalere su un valoroso, giusto e generoso cavaliere. I tempi moderni iniziano con questa transizione, dopo questa acquisizione un intero sistema di valori con una storia ricca e gloriosa crolla fragorosamente. Molti filosofi ed artisti tra il quindicesimo ed il sedicesimo secolo (i decenni in cui si affermarono le armi da fuoco) percepirono la rilevanza di questa transizione. Nel nono canto di quell’opera stupefacente che è l’ ‘Orlando Furioso’ ecco come Ludovico Ariosto descrive i primi archibugi:

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 Che si puo’ dir che tuona e che balena
Ne’ men che soglia il fulmine ove passa
Cio’ che tocca arde, abbatte, apre e fracassa. (IX, 29, 6-8)
Questa sorta di ‘fulmine terrestre’ ha una potenza che appare immediatamente come soprannaturale:
Chi vide mai dal ciel cadere il foco,
che con si orrendo suon Giove disserra,
e penetrare ove un richiuso loco
carbon con zolfo e con salnitro serra;
ch’a pena arriva, a pena tocca un poco,
che par ch’avampi il ciel, non che la terra;
spezza le mura, e i gravi marmi svelle,
e fa i sassi volar sin alle stelle; (IX, 78, 1-8).
L’arma da fuoco è identificata come opera diabolica proprio nel senso di sovversione dell’ ordine sacro del mondo, ed ecco allora che Orlando, dopo essere sfuggito alla potenza dell’arma utilizzata dal perfido re Cimosco, la getta per sempre nell’ inferno da dove proviene:
O maladetto, o abominoso ordigno,
che fabricato nel tartareo fondo
fosti per mano di Belzebù maligno
che ruinar per te disegnò il mondo,
all’ inferno, onde uscisti, ti rasigno.
Così dicendo lo gittò in profondo (IX, 91, 1-6).
L’impresa di Orlando di eliminare dalla faccia della terra le armi da fuoco fu portata a termine con successo per più di due secoli dalla classe dirigente giapponese che ebbe una chiara percezione dell’effetto di stravolgimento dell’ordine sociale da parte delle armi da fuoco: agli inizi del Seicento, il Giappone vietò l’uso delle armi da fuoco sul territorio nazionale così che la guerra potesse rimanere un affare ristretto ad una elite  di guerrieri coraggiosi ed uniti da un codice d’onore , i Samurai. Per mantenere questo stato di cose il Giappone si chiuse completamente ai rapporti con gli Occidentali che avevano accesso solo all’area ristretta del porto di Nagasaki. Purtroppo il Giappone fu costretto ad abbandonare questa politica a metà del diciannovesimo secolo quando le cannoniere del generale Perry (le famose ‘navi nere’) si affacciarono nella baia di Nagasaki e l’imperatore Meji, preoccupato dalle mire colonialistiche dei paesi occidentali e dalle conseguenze per l’indipendenza nazionale, decise di introdurre bruscamente il Giappone nell’era moderna e quindi alla tecnologia delle armi da fuoco. Le guerre, dopo l’introduzione delle armi da fuoco smettono di essere una questione di elite per diventare qualcosa di molto più sanguinoso in cui tutti i cittadini sono coinvolti.
La nozione di riduzionismo è implicita nell’uso delle armi da fuoco: chi ha in mano una pistola non si deve preoccupare più di tanto delle ‘condizioni al contorno’ come la forma fisica e spirituale del momento, l’arte del duello, la motivazione profonda dello scontro, nel caso delle armi da fuoco la sola cosa importante è colpire il bersaglio. Una situazione inizialmente sfaccettata e molteplice collassa verso il suo centro, tutte le cose accessorie (ma potenzialmente cruciali) semplicemente svaniscono e diventano irrilevanti. Questo è esattamente il compimento del sogno alchemico dell’ ‘essenza’ ! Ed è corrispondente all’attrazione esercitata sugli scienziati dai ‘principi primi’ dalle ‘leggi immutabili della natura’ da cui derivare tutte le altre caratteristiche (accessorie) del mondo per il mezzo della pura ragione.  L’idea di fondo è che sia solo la nostra ignoranza che non ci permette di portare a termine definitivamente il compito ambizioso della teoria definitiva ed ultima ma che, almeno in linea di principio, si possa sviluppare una teoria del tutto che riduca il mondo ad un’equazione che renda completamente inutile ulteriore scienza fatta dall’uomo con creatività ed intuito: tutto potrebbe a questo punto essere messo nelle ‘mani’ di un computer che deriverebbe automaticamente tutte le conseguenze di tale teoria fin nei minimi dettagli come nei racconti di Isaac Asimov.  
Ovviamente, molti pensatori in tutte le epoche (da Blaise Pascal a Bruno De Finetti) hanno riconosciuto le intrinseche aporie ed i corti circuiti logici di questo modo di pensare, un chiarissimo articolo di Robert Laughlin e David Pines [R. B. Laughlin and David Pines (2000).The Theory of Everything, PNAS 97: 28-31] è l’ultima (e noi speriamo definitive ma la sete di potere dell’uomo è purtroppo inestinguibile) brillante messa in ridicolo dei sogni di domino delle teorie del tutto ma questo paradigma onnicomprensivo è così indistricabilmente legato alla scienza moderna che il linguaggio degli scienziati trasuda di immagini guerresche. Così noi identificheremo ‘un bersaglio molecolare’ per un certo farmaco o di un virus, a sua volta una medicina molto efficace è detta ‘pallottola magica’ (magic bullet) e chiaramente una teoria ‘trionfa’ oppure ‘viene demolita da nuove osservazioni’ e paradigmi ‘vincenti’ sostituiscono paradigmi ‘perdenti’. Questo stridore di armi ha ottenuto dei grandiosi successi nell’era moderna: ad esempio ha permesso di sviluppare farmaci efficienti nel caso di malattie acute (dove effettivamente un bersaglio molecolare singolo poteva essere individuato) e, per la stessa ragione ha consentito di individuare delle cause eziologiche particolarmente rilevanti ed importanti come batteri, virus e (pochi a dire la verità) agenti ambientali come le radiazioni ionizzanti, il fumo di sigaretta, l’amianto. Nei casi in cui non esista un ‘singolo nemico’ da isolare, identificare e colpire, la ‘scienza da guerra’ è molto meno efficiente: lo vediamo nel caso delle malattie croniche e degenerative dove non esiste un ‘bersaglio privilegiato’ ma una miriade di co-fattori e con-cause, ciascuna singolarmente abbastanza irrilevante e dispensabile si coordinano in maniera largamente ignota per provocare l’effetto macroscopico. Le stesse difficoltà le incontriamo quando dobbiamo valutare l’effetto di scelte ‘localmente razionali’ su sistemi complessi ed inter-dipendenti come i sistemi ecologici, oppure quando dobbiamo immaginare di mettere un argine all’epidemia di malattie nervose e psichiatriche che sta dilagando nei paesi ricchi.
La persistenza di paradigmi ‘guerreschi’ più o meno impliciti nel pensiero scientifico sta diventando un forte limite allo sviluppo di impostazioni realmente nuove ed efficaci per capire nuove classi di problemi e quindi operare nel mondo reale.
Quando si descrivono ‘problemi multi-fattoriali’ si parla con il linguaggio della probabilità. Per fare ciò dobbiamo rivoltare da cima a fondo l’intera impostazione ‘storica’ della fisica. In questa storia si è iniziato con il postulare l’esistenza di ‘leggi’ agenti a livello macroscopico (ma aventi una base nel tessuto profondo della materia) che sono in realtà delle distribuzioni probabilistiche ‘molto strette’, le stesse distribuzioni, guardate a livello ‘microscopico’ sono molto più incerte e ‘diffuse’. Se consideriamo bene questa situazione dovremmo concludere che il luogo dove cercare ‘i determinanti’ di un qualsiasi evento non è certo il ‘livello fondamentale’. Il grande matematico e statistico italiano Bruno De Finetti negli anni ’30 diede una brillante spiegazione di tutto ciò semplicemente considerando come la scienza non si occupi della realtà in quanto tale ma di ‘rappresentazioni’ del reale né più né meno dell’arte. Chiaramente questo non implica che non esistano realtà e verità, a mio parere esistono entrambe e danno un senso alla nostra ricerca, ma la scienza ha con loro un rapporto filtrato dalla soggettività dello scienziato.
Insomma, le radici del pensiero scientifico, da cui esso deriva la sua unità, sono da cercarsi nel concetto di valutazioni di probabilità degli eventi che non possono essere più considerate come un surrogato delle ‘vere leggi che saranno scoperte in futuro’ ma come il luogo dove vive la conoscenza scientifica del mondo. Se le cose stanno così, le condizioni al contorno, come nei duelli con la spada, diventano la cosa più importante da considerare. La scienza ritorna al suo ramo artistico abbandonando la via alchemica: la probabilità di un evento è determinata dalle condizioni al contorno e dal giudizio soggettivo dello scienziato che valuta criticamente (in queste due ultime parole sono racchiuse le basi etiche della scienza che non può più essere considerata come una conseguenza necessaria a partire da certe premesse) le evidenze in suo possesso per andare avanti in un processo infinito di aggiustamento e cambio di prospettiva Questa attività implica un interazione continua tra osservatore ed osservato ed è quindi personale ed irripetibile e quindi artistica, che è poi un sinonimo per dire umana ed individuale. Possiamo scorgere il carattere individuale dell’attività scientifica (individuale non deve opporsi a collettivo, quasi tutti i lavori scientifici sono frutto di collaborazioni fra diversi individui ed il prodotto finale deriva dalla loro interazione che però non annichila ma esalta i contributi personali, come nella costruzione delle cattedrali romaniche) nel piano degli esperimenti, nella scelta del materiale, dei metodi di analisi, nel carattere delle misure, nello stile argomentativo ed apprezzare (o anche disapprovare) l’intero lavoro in maniera non dissimile da come apprezziamo il lavoro di un falegname o di un sarto.  La necessità di abbandonare le radici alchemiche del pensiero scientifico per esaltare il suo ramo artistico ed artigianale è sempre più sentita dagli scienziati e questa è una grande consolazione per l’umanità che forse potrà avere a disposizione una scienza ‘purificata’ delle sue smanie di dominio e pronta a lavorare per il bene comune.
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