«Laudato si, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, / da la quale nullo omo vivente po’ scampare».La preghiera del Santo di Assisi pare essere tornata di moda al giorno d’oggi, ma probabilmente con senso e finalità che S.Francesco non avrebbe mai immaginato. Basta sfogliare i quotidiani italiani per verificare come violenza e morte incutano soprattutto “paura” e insicurezza. La violenza, perché richiama alla mente il “dolore”; la morte, perché nega il domani e, vantaggio macabro ma vero, di per sè annienta il “dolore”.
Questo, in sintesi, il quadro impressionista che ci sta dinanzi, dove la parte del leone è giocata dalla tinta del “dolore”, che non lascia dubbi circa la questione che si pone dinanzi a noi tutti: la cancellazione del dolore (non solo dei malati, ma soprattutto dei loro cari) può legittimare la consegna dello stesso (dolore) alla “sora nostra Morte corporale”?
Parrebbe di si, sol si veda il dato diffuso in questi giorni per il quale nei reparti di rianimazione italiani ogni anno avvengono circa 18 mila decessi per sospensione di terapie “inutili” (il 62% delle morti secondo uno studio condotto in 84 reparti di rianimazione e terapia intensiva nel 2005). Come può accadere ciò, verrebbe da domandarsi? Grazie al richiamo alla c.d. “desistenza terapeutica”, termine virtuale creato ad arte per esorcizzare quello reale della morte.
Nel quadro impressionista, (troppo) ricco di tinte fosche e spesso annebbiate da una malcelata ideologia, si inserisce la recente pronuncia della Cassazione sul caso “Eluana Englaro”, con la quale sono stati pronunciati alcuni principi di diritto, talmente forti che potrebbero mutare davvero l’esperienza giuridica in materia di tutela della persona, sconvolgendo di conseguenza lo stesso ordinamento giuridico.
Nel caso specifico, però, crediamo che Shakespeare ci avrebbe confortato tutti (pro e contro eutanasia e/o accanimento terapeutico) con il suo “Much ado about nothing”.
Difatti, secondo Corte i presupposti imprescindibili perché possa essere autorizzata la interruzione della alimentazione mediante sondino nasogastrico (seguendo il caso concreto), sono due: che la condizione di stato vegetativo sia «irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno»; che «tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire l’idea stessa di dignità della persona»;
La Cassazione pone a fondamento della pronuncia alcune premesse evidentemente confutabili. Nessun esperto potrebbe (almeno al giorno d’oggi) dichiarare senza dubbio alcuno l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo (assumendosi la responsabilità peraltro di assicurare a tutti che non vi è la “benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza”), se non in base ad una scelta puramente soggettiva, alias arbitraria e quindi nemmeno legittimata dalla sentenza in questione.
Ad ogni buon conto, come il vecchio brocardo insegna, quot capita, tot sententiae, e quindi una analisi migliore emergerà solo a seguito della nuova decisione della Corte d’Appello di Milano. La questione, però, è comunque urgente e soffia verso lidi ben più gravi di quelli tratteggiati dal testo di una sentenza particolare.
Anche tacendo in questa sede le critiche che generalmente si propongono al living will, il problema verte sulle condizioni alle quali è lecita (e legale) l’eutanasia. Senza troppi giri di parole e senza nessuna concessione al politically correct si tratta di giustificare o meno un diritto onnipotente dell’uomo a disporre della propria vita (come per il suicidio), con in più un curioso e terribile corollario che comporta l’obbligo da parte di alcuni (i medici e/o il personale sanitario) di realizzare l’atto eutanasico preteso.
Ecco che, se il vaso di Pandora è ormai scoperchiato, non è possibile proporre in questa sede che una umile conclusione interlocutoria che aiuti, lo si spera, a volgere lo sguardo verso alt(r)e sfere, ben oltre l’infeconda contingenza della paura, del dolore, della violenza.
Recuperando il magistero della Evangelium Vitae, ritenuta non a torto parte integrante della Dottrina sociale della Chiesa, vediamo che il punto di vista preferibile è quello del bene comune, poiché tale problema non può essere affrontato (e risolto) dal singolo, che è, magari suo malgrado, inserito in una comunità. In questo senso l’eutanasia è una «falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza» (n.66).
Come detto all’inizio, il problema è il “dolore”. Dal suo rifiuto, con tutte le conseguenze che questo comporta, sentiamo tutti il bisogno di passare al suo accoglimento. Così il dolore non verrà esorcizzato, ma diventerà sempre più un paradigma delle relazioni tra i soggetti, come ci ha già testimoniato Giovanni Paolo II.
Se però è plausibile quanto detto, vuol dire che oltre al problema, è lecito qui riconoscere anche la soluzione: aiutare le persone a vivere la relazione non solo con il dolore, ma anzi e soprattutto nel dolore, invitando tutti a proporre percorsi educativi e risorse economico-assistenziali con il solo scopo che anche i futuri “papà Englaro” possano rimanere accanto alla figlia per dire assieme, senz’altro e nonostante tutto, «Laudato si, mi Signore».