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In questi giorni, la cronaca giudiziaria offre un’ampia scelta di presunti casi di mala gestione pubblica. Si vedrà nei prossimi mesi se le accuse saranno confermate. Nel frattempo, però, l’effetto sulla opinione pubblica è evidente. I titoli sui giornali sembrano l’ennesima dimostrazione del malcostume italiano, dello scarso rispetto dei principi etici e delle regole del vivere associato.

Mi aspetto che, alla luce di questi ed altri fatti, qualcuno proponga di “rivedere le regole”, per renderle più precise e stringenti. Mi immagino proposte per definire in modo più puntuale le procedure di appalto, per intensificare i controlli, per creare commissioni d’indagine o “osservatori per la legalità”.
Si tratterebbe di una risposta non certo originale. E’ la classica risposta che da sempre diamo ai problemi che riguardano la pubblica amministrazione. Ma non possiamo certo dire che, percorrendo questa strada, abbiamo ottenuto risultati particolarmente lusinghieri.
L’impostazione burocratico-weberiana che ha ispirato per decenni il funzionamento dell’amministrazione pubblica si fonda proprio sul principio secondo il quale una maggiore regolamentazione delle attività permette di prevenire comportamenti scorretti da parte dei funzionari. Se si definiscono nei minimi dettagli i passaggi dell’attività amministrativa, automaticamente si assicurano imparzialità, trasparenza, correttezza, legalità, ecc.
Da quasi trent’anni, però, gli studi e le pratiche di gestione delle amministrazioni pubbliche stanno mettendo profondamente in discussione l’approccio tradizionale ritenendolo inadeguato a rispondere ai moderni problemi dei cittadini. Eppure è così radicato nella cultura collettiva che viene spontaneo continuare ad utilizzarlo.
Scoppia lo scandalo degli appalti assegnati alle “imprese amiche”? Si risponde rendendo più rigida la legislazione sugli appalti.
Scoppia lo scandalo dei “concorsi truccati”? Si introduce una maggiore formalizzazione delle procedure concorsuali.
Il problema è che così facendo si innesca una continua rincorsa alla proceduralizzazione, ma non si risolve il problema. Regole più restrittive, infatti, generano due conseguenze negative:

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  1. frenano l’azione di chi è sinceramente impegnato a perseguire il bene comune, rallentando le attività e richiedendo sempre più tempo per gli adempimenti amministrativi; molto spesso proprio costoro sono costretti a forzare le regole per raggiungere i risultati attesi, con il rischio di prestare il fianco ad azioni disciplinari o addirittura penali nonostante il loro comportamento sia assolutamente appropriato sotto il profilo etico;
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  3. offrono un ottimo alibi ai “malintenzionati” o a chi, semplicemente, non vuole mettere troppo impegno nel proprio lavoro; costoro possono trincerarsi dietro le regole per evitare di rispondere direttamente delle proprie scelte e dei propri comportamenti (“Vorrei, ma la legge non lo consente!”).
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Ecco, dunque, che si ha un effetto boomerang: regole sempre più puntuali diventano il paravento dietro cui nascondere inefficienza, sprechi e anche comportamenti illeciti.
Pensiamo al tanto dibattuto tema dei concorsi nelle Università. Nonostante vi siano procedure formali anche molto rigorose (e dispendiose in termini di risorse e di tempo), sappiamo benissimo che nella maggior parte dei casi esse servono solo a formalizzare decisioni già prese in altre sedi, in molti casi più che legittime, in altri discutibili sul piano etico (vedi le dinastie familiari che occupano interi dipartimenti).
Davanti all’ennesimo caso di nepotismo, però, si sente dire che occorre rendere più stringenti le procedure concorsuali.
Personalmente, invece, condivido in pieno l’affermazione di un Docente universitario che ho avuto la fortuna di incontrare il quale affermava che il problema non è fare in modo che la scelta del ricercatore, dell’associato o dell’ordinario dipenda esclusivamente dalle prove concorsuali. Piuttosto, occorre far sì che chi compie la scelta “vera” se ne assuma tutta la responsabilità.
Il concorso sembra rendere oggettiva (e quindi trasparente, legale, impersonale) una scelta che invece oggettiva non può essere. Il risultato è che, grazie al concorso, nessuno risponde realmente delle proprie scelte, ma ci si giustifica dietro il fatto che “le procedure sono state rispettate”.
E allora, per evitare quei fenomeni di mala amministrazione di cui troppo spesso sentiamo parlare, forse è arrivato il momento di riportare l’attenzione sulle persone, sulla loro libertà di scelta (e anche di errore!) e sulla loro responsabilità. In ultima analisi, si tratta di dare più fiducia alle persone che alle regole.
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