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La proposta di riforma dell’art. 41 della costituzione avanzata dal Governo con il dichiarato intento di dare un nuovo slancio alla crescita economica del nostro Paese prevede la modifica del testo mediante l’inserimento di un nuovo principio guida secondo cui “l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”.

L’art. 41 rappresenta l’architrave della nostra costituzione economia, il principio nel quale vive quella relazione-contrapposizione tra libertà e autorità alla base del nostro sistema economico. Come tutte le altre norme costituzionali dedicate ai rapporti economici, infatti, l’art. 41 mentre garantisce una posizione giuridica individuale (“l’iniziativa economica privata è libera”), nello stesso tempo ammette che la legge – in quanto espressione della volontà popolare – possa apportare limitazioni a tale libertà purché preordinate a consentire il soddisfacimento di interessi costituzionalmente rilevanti (“non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”).
Il nuovo testo dell’art. 41 ha un contenuto senza dubbio innovativo. Tuttavia, non nel senso di ampliare realmente le possibilità di azione concesse dall’ordinamento ai privati, bensì, nella rinuncia a quella seconda parte del testo vigente che attribuisce – in astratto – ai pubblici poteri il compito di far si che la libertà d’iniziativa economica privata si svolga in armonia con le altre fondamentali esigenze espresse nella costituzione (utilità sociale, rispetto dell’altrui libertà, della dignità umana, ecc…). In tal senso, il nuovo testo attribuisce al legislatore il potere di disciplinare l’iniziativa e l’attività economica senza, però, definire un limite alle infinite possibilità di intervento dei pubblici poteri sui meccanismi di mercato. Da questo punto di vista, la proposta di riforma parrebbe peggiorare i mali che intende curare.
La riforma non sembra né cogliere i veri problemi dell’economia italiana, nè “indirizzare” la libertà economica verso quello sviluppo umano integrale di cui parla la dottrina sociale della Chiesa. Il Santo Padre Giovanni Paolo II, al paragrafo 42 dell’enciclica “Centesimus Annus”, ha sottolineato invece come – affinchè si creino le condizioni per un autentico sviluppo umano – la libertà nel settore dell’economia, debba inquadrarsi in un solido contesto giuridico capace di metterla al servizio della libertà umana integrale. L’importanza delle regole (giuridiche e non) rappresenta, infatti, un principio centrale nella dottrina sociale della Chiesa così come fondamentale è quello secondo cui i pubblici poteri – sussidiari e poliarchici, come ricordava l’articolo di Flavio Felice su “ Avvenire ” del 9 febbraio – hanno il compito di intervenire al fine di assicurare quella coesione sociale che è presupposto essenziale per il funzionamento del mercato (cfr. paragrafo 35 dell’enciclica “Caritas in Veritate”).
L’art. 41, anche grazie alle interpretazioni fornite dalla Corte Costituzionale (recentemente richiamate anche dal Sen. Ceccanti nel suo blog), ha svolto un ruolo essenziale per il processo di crescita e coesione sociale del nostro Paese. In esso v’è una concezione dell’intervento pubblico in chiave difensiva rispetto al mercato (a tutela, quindi, del mercato stesso), l’implicito riconoscimento di un’autonoma rilevanza positiva del mercato per l’interesse generale e, infine, l’assegnazione di un duplice riconoscimento del valore individuale e generale della libertà economica. Di fatto, sancendone da un lato la non comprimibilità da parte dei pubblici poteri e, dall’altro, la necessaria non arbitrarietà di qualsivoglia limitazione.
Definito una volta per tutte il ruolo dei pubblici poteri nel processo economico, così come i limiti e le finalità del loro intervento, nel vigente art. 41 il vero nodo problematico è rappresentato piuttosto dalla costante tensione tra le diverse forme di intervento pubblico che convivono nel testo. Da un lato la regolazione, ovvero quelle misure che presuppongono la spontaneità dei processi economici e si propongono di orientarne solo indirettamente e dall’esterno il corso in vista di finalità di interesse generale; dall’altro la programmazione e pianificazione, ovvero quelle misure che presuppongono un fine di interesse generale da realizzare, che prestabiliscano le condizioni necessarie affinchè quel determinato fine possa dirsi realizzato e, infine, che si propongono di conformare direttamente i processi economici alle condizioni ipotizzate.
Purtroppo l’art. 41 non contiene una chiara visione degli scopi sottesi all’intervento pubblico nell’economia, né dei limiti strutturali che questo incontra nella necessità di rispettare la spontaneità dei processi economici. Ed è su questo specifico terreno che lo spirito riformatore dovrebbe invece confrontarsi spingendosi a favore di un definitivo superamento del modello della pianificazione, tipico delle politiche industriali, verso una politica della concorrenza, imperniata su regole generali finalizzate a proteggere l’intrinseco valore del processo della competizione economica, e della regolazione generale, obiettiva e neutrale rispetto agli interessi in gioco.
Nello stesso tempo però, al fine di far vivere nella realtà i nuovi principi introdotti dall’art. 41, sarebbe auspicabile che il legislatore ordinario faccia un passo decisivo verso la definizione di un chiaro bilanciamento tra libertà economica e interessi generali introducendo nell’ordinamento gli opportuni strumenti di comparazione tra le diverse forme di intervento pubblico al fine di incentivare quelle di volta in volta ritenute meno invasive della libertà sacrificata, dichiarando invece l’illegittimità costituzionale di quelle insanabilmente in contrasto con il principio di sussidiarietà orizzontale (come recentemente ricordato dal Prof. Antonini sulle pagine del Il Sole 24 Ore).

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