Le vicende che hanno portato alle dimissioni del governo Berlusconi e alla formazione del nuovo governo Monti meritano ancora qualche breve riflessione. In particolare, da un lato, con riferimento alla supposta “sospensione” della democrazia, che sarebbe conseguenza della formazione di un governo diverso da quello uscito dalle urne; inoltre, con riferimento alla crisi della rappresentanza, testimoniata in particolare dalla formazione di un “governo tecnico”.

Partendo proprio da quest’ultima questione, quella cioè relativa alla crisi della rappresentanza politica va detto, in primo luogo, che, anche a voler ammettere che la formazione di un “governo tecnico” sia sintomo di crisi – e in realtà non può negarsi che lo sia – non ci troviamo però di fronte a un fatto del tutto nuovo. Non è una novità infatti che in Italia si faccia ricorso a “governi tecnici” (o a “governi del Presidente”) a governi cioè che, in fase di crisi o di transizione politica, sono sorretti dall’appoggio di maggioranze ampie, comunque diverse da quelle emerse dal voto o, talvolta, da maggioranze variabili (come nel caso del Governo Dini dal 1992 al 1995) e che hanno inoltre durata limitata nel tempo in quanto finalizzati al raggiungimento di determinati obiettivi. Si tratta in ogni caso di governi affatto diversi da qualunque altro governo essendo, come tutti gli altri, necessariamente governi “politici”, posto che devono comunque sottostare alle comuni regole costituzionali che prevedono la sottoposizione al voto di fiducia da parte di entrambe le Camere.
Sgombrato dunque il campo da questo primo equivoco, quello cioè che porta a ritenere i governi tecnici come governi non sorretti dalla volontà parlamentare, va inoltre evidenziato come più in generale sia possibile affermare che nel nostro Paese si sia in presenza di un’evidente crisi del sistema dei partiti e della rappresentanza politica. Crisi che non è certo, anch’essa, un fatto nuovo ma che data almeno da tangentopoli, cioè dai primi anni ’90, quando le vecchie formazioni politiche, diretta filiazione del Comitato di Liberazione Nazionale, furono irrimediabilmente travolte sotto i colpi delle inchieste giudiziarie che misero allo scoperto un sistema diffuso di corruzione all’interno dei partiti e nelle istituzioni. In quegli stessi anni, in realtà, al fenomeno tutto interno al nostro Paese, di emersione di un sistema di corruzione si accompagna un evento, la caduta del Muro di Berlino che, a livello internazionale, rappresenta un elemento di profondo mutamento delle tradizionali contrapposizioni ideologiche che avevano contraddistinto il sistema dei partiti anche in Italia.
La cancellazione del vecchio sistema partitico agli inizi degli anni ’90 segna così uno spartiacque tra un passato, con partiti fortemente strutturati sotto il profilo organizzativo, ideologicamente caratterizzati e, in questo senso, anche ben chiaramente collocabili e contrapponibili, e i partiti sorti dopo la “grande slavina” di tangentopoli (L. Cafagna, 1993), non più ideologici, ma personalisti e poco strutturati, contraddistinti dalla presenza di un leader all’interno di ciascuno schieramento quale fulcro attorno al quale si muovono le scelte compiute in un’ottica di interventi sempre più particolaristici e settoriali. Insomma, come si è a ragione evidenziato (P.A. Capotosti, federalismi.it, 17/2010), i due fattori, quello interno e quello internazionale, hanno “contribuito a determinare la rarefazione e poi la scomparsa della grande politica, intesa come ricerca e cura degli interessi generali. Al suo posto sono progressivamente emerse e si sono diffuse le politiche settoriali, indirizzate precipuamente al perseguimento di interessi sempre più frazionati e particolari”.
In questo contesto le scelte compiute in senso maggioritario, attraverso le modifiche al sistema elettorale, intervenute nello stesso periodo, hanno inoltre lo scopo di consentire il superamento di quello che ha da sempre rappresentato uno dei mali endemici del nostro Paese e cioè l’instabilità dei governi. Senza quindi alcuna modifica al testo costituzionale si tenta così di assicurare la governabilità attraverso la semplificazione – meccanicamente indotta da un sistema elettorale maggioritario – di un sistema dei partiti tradizionalmente frammentato. Potremmo dunque affermare che a partire dagli anni ’90 la personalizzazione del potere si accompagna ad un tentativo di “artificiale” semplificazione del quadro politico e alla volontà di arrivare ad una modifica della forma di governo, nel senso del rafforzamento dell’asse maggioranza parlamentare-Presidente del Consiglio e ad una valorizzazione della componente governativa con riferimento alla definizione dell’indirizzo politico.
Si tratta però di tentativi che, a vent’anni da quella che potremmo definire come la nuova fase della vita politica italiana, non sembrano aver consentito di raccogliere i frutti sperati. La semplificazione del quadro politico indotta, come dicevamo, da modifiche al sistema elettorale, con la formazione di due schieramenti contrapposti, presenta dunque caratteristiche molto lontane da altre esperienze europee di tipo maggioritario. La specificità del caso italiano sta proprio infatti nell’aver tentato di introdurre una sorta di “premierato” non previsto nel testo costituzionale, ma basato sul convergere di elementi ad esso estranei attraverso l’introduzione di un sistema elettorale tendenzialmente maggioritario e l’”induzione” conseguente di due schieramenti contrapposti. Questo modello tuttavia può funzionare se, da un lato, ciascuno dei due opposti schieramenti è caratterizzato da una certa omogeneità interna. Ben difficile però che l’omogeneità sia possibile quando gli schieramenti si costruiscono a tavolino e sono dunque sostanzialmente dei “cartelli elettorali”. D’altro lato, solo questa omogeneità può rendere veramente forte il leader dello schieramento che è altrimenti condizionato da veti incrociati e che spesso, più che rappresentare un vero leader, con un ruolo quindi decisionale, può tutt’al più cercare di mediare tra le diverse posizioni presenti all’interno di schieramenti eterogenei e privi di un fattore unificante. Insomma, in Italia la litigiosità interna a schieramenti reciprocamente portati a delegittimarsi piuttosto che a riconoscersi in regole comuni, l’assenza di un radicamento ideologico, la modifica della forma di governo per la via elettorale sono tutti elementi che hanno di fatto condotto ad esiti opposti rispetto a quelli ricercati e cioè alla conferma della tradizionale instabilità politica senza che quindi la modifica del sistema elettorale sia stata evidentemente in grado di indurre una qualche razionalizzazione della nostra forma di governo.

Nel caso dell’ultimo governo Berlusconi a tutti i fattori di crisi evidenziati si sommano alcuni fattori ulteriori e cioè, da un lato, l’”appannamento” della leadership presidenziale a seguito delle vicende che lo hanno visto coinvolto e che hanno finito con il minarne in maniera irrimediabile la credibilità anche sul piano internazionale. Inoltre, non va certo trascurato un ulteriore fattore di debolezza che riguarda potenzialmente qualunque leader dello schieramento al governo e rappresentato, nel sistema elettorale attuale – il tanto noto, quanto criticato “Porcellum” – dalla presenza di liste bloccate che, oltre a determinare un evidente scollamento con l’elettorato al quale viene sottratta la scelta diretta dei rappresentanti, comporta il rafforzamento del legame con il leader ma anche la possibile trasmigrazione da uno schieramento all’altro – peraltro del tutto compatibile con il divieto di mandato imperativo di cui all’art. 67 Cost. – anche in ragione di più allettanti prospettive rispetto a quelle offerte dalla situazione di partenza. Infine, nel caso specifico del governo Berlusconi, ha certo avuto un peso non secondario la situazione economica di crisi particolarmente grave nell’ambito della quale si è consumata la rottura anche all’interno dell’asse PDL-Lega che ha di fatto reso impossibile mettere in atto le scelte rese necessarie dalla gravità della situazione economica conducendo irrimediabilmente alla fine del governo.
Da quanto abbiamo evidenziato non può allora negarsi che ci troviamo ormai di fronte ad una crisi di lungo periodo sia del sistema dei partiti che dei meccanismi della rappresentanza politica. In questo contesto è allora corretto affermare che il governo tecnico – d’emergenza o di “impegno nazionale”, come definito dallo stesso Monti – abbia forse rappresentato l’unica soluzione possibile nel contesto di una crisi già in atto e acutizzata dalla presenza dei fattori di crisi ulteriore. Infatti mi sembra indubbio che, pur tenendo fermo il quadro di fondo, la strada oggi imboccata dai partiti presenti all’interno del Parlamento sia, se non l’unica possibile, certamente quella più facilmente praticabile rendendo infatti, nei tempi brevi richiesti dal contesto europeo, di compiere scelte che, impossibili per la maggioranza berlusconiana per la crisi interna allo schieramento politico di governo emerso dai risultati elettorali, diviene possibile ad un governo diverso grazie all’appoggio delle principali formazioni politiche presenti in Parlamento. Il che peraltro, secondo alcuni osservatori (cfr. M. Ainis, Corriere della Sera, 4 dicembre 2011) non porta ad escludere anche la possibilità che proprio questo governo possa mettere in atto alcune riforme costituzionali proprio grazie al largo appoggio di cui oggi può godere in Parlamento.
Quanto poi al tema della “sospensione” della democrazia, che sarebbe la conseguenza della formazione di un governo sostenuto da una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne nelle ultime elezioni, e del ruolo del Presidente in questo contesto, vi è da dire che sulla base del dettato costituzionale, e secondo un’interpretazione maggioritaria alla quale ritengo di aderire, a fronte di un governo dimissionario, al Presidente della Repubblica non competa procedere obbligatoriamente allo scioglimento anticipato delle Camere, ma spetti piuttosto ricercare una maggioranza alternativa che sia in grado di appoggiare un diverso governo. Altra questione è poi rappresentata dal ruolo giocato dal Presidente della Repubblica nelle fasi che hanno preceduto le dimissioni, Presidente che anche grazie alla sua vocazione “dialogante” non solo con le istituzioni ma anche direttamente con il corpo elettorale è apparso giocare un ruolo di primo piano. Non è questa tuttavia le sede per affrontare il tema del ruolo presidenziale che richiede ben altri approfondimenti e riflessioni, anche in particolare sui poteri di “esternazione” presidenziale, da parte della dottrina. Al di là quindi di tali aspetti è evidente allora come il governo Monti sia stato frutto principalmente della scelta della maggior parte delle forze politiche presenti in Parlamento di appoggiare un nuovo governo piuttosto che di imboccare la ben più rischiosa strada delle elezioni anticipate. Ed è infine del pari evidente come questo governo, nato con il consenso dei partiti, continuerà ad esistere fino a quando saranno sempre i partiti a ritenere opportuno mantenerlo in vita.

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