Nonostante certa stampa anglosassone e nostrana, è indubbio che in questi anni che l’Italia ha ricoperto un ruolo positivo nelle relazioni internazionali, in aree e modalità assai diversificate: dal ruolo dei nostri militari in Libano o in Afghanistan, all’impegno nel peacekeeping, dal ruolo di facilitatore effettivamente svolto nel rilanciare le relazioni con Russia e Iran, passando dalla crisi con la Georgia o dalla più che positiva gestione della Presidenza G8. Si tratta di ruoli a volte silenziosi ma importanti, oggetto di riconoscimento da parte della nuova amministrazione USA (e non solo) – ad esempio con l’inclusione dell’Italia nel vertice dei massimi donatori di peace keeping a fine settembre all’ONU. Sono anche in buona parte il risultato di azioni e politiche portate avanti con continuità nell’alternarsi dei governi. Sebbene con distinguo ed accenti diversi, legati alle sensibilità dei diversi ministri – si prenda ad esempio il Medio Oriente – vi è infatti un’intelligente sostanziale continuità nella politica estera italiana. Tuttavia, di fronte ad un riconoscimento da parte dei policy makers dell’utilitàdell’Italia nelle relazioni internazionali, manca il riscontro pubblico, domestico ed internazionale. La domanda da porsi è dunque perché il ruolo dell’Italia non venga adeguatamente riconosciuto. Due sono le principali variabili esplicative. La prima è da ritrovarsi – come giustamente ha scritto Vittorio Emanuele Parsi su Affari Internazionali – in un radicato pregiudizio della stampa internazionale che colpisce oggi Silvio Berlusconi come Romano Prodi ieri e che viene strumentalmente utilizzata dall’opposizione (dimentica dunque che la politica estera di oggi è anche il risultato delle proprie azioni). La seconda variabile è l’incapacità, da parte dell’Italia, di porre in atto strategie strutturate e continuative tese a influenzare positivamente chi scrive di politica estera italiana. Sono queste due distinte categorie di persone, per le quali le strategie debbono necessariamente essere diversificate. Da una parte vi sono i giornalisti, italiani ed esteri. Questi ultimi sono i più difficili da raggiungere, ed il grande lavoro che svolgono le ambasciate è evidentemente non sufficiente. Probabilmente una riflessione andrebbe qui avviata sull’opportunità di coinvolgere in tale esercizio professionalità specificatamente preparate per occuparsi di comunicazione, che potrebbero, anzi dovrebbero, essere validamente assistite dal personale diplomatico dal punto di vista contenutistico. Il secondo motivo per cui è più difficile approcciare i giornalisti stranieri è che, per influenzarli positivamente, non basta un invito a cena: la catering diplomacy è utile ma non è sufficiente. Per poter avere effetto è necessario un investimento approfondito, di lungo termine (e pure abbastanza costoso), teso ad influenzare le fonti di chi scrive sulla stampa: policy makers stranieri e analisti della politica estera italiana. Contrariamente a quanto succede in Italia, infatti, dove il dibattito tra specialisti è di tipo accademico e pertanto sostanzialmente avulso dalla concreta conduzione della politica estera, altrove l’interscambio tra analisti e policy makers è radicato e proficuo. Laddove in Italia solo pochi analisti della politica internazionale hanno svolto ruoli attivi nella definizione e conduzione della policy, all’estero – specie nei paesi nordici ed anglosassoni – l’interscambio tra ruoli è cosa normale. Ora, essendo gli analisti della politica estera italiana – nello Stivale e all’estero – un gruppo di persone assai ridotto (sic!), comunicare con loro non dovrebbe essere compito insormontabile. Tentativi sporadici sono stati fatti qua e là, nel passato come oggi, ma si tratta di più di sforzi legati all’intraprendenza dei singoli individui, piuttosto che parte di una strategia strutturata e complessiva in cui il paese fa veramente sistema. Che lo si chiami complesso di Carlo VII, come fa Parsi, o complesso di Calimero, come fa Riccardo Peressich, il punto è sempre quello: l’incapacità degli italiani di fare squadra. Siamo ben lungi, dunque, dai 10 milioni di dollari che la Germania ha ad esempio investito qualche anno fa per migliorare la propria immagine negli USA, con i quali ha stimolato la ricerca e permesso l’invio di propri analisti e diplomatici di spicco nei maggiori think tank e università americani (i quali, lo si dica per inciso, si adoperano per valorizzare i punti di forza della Germania, non il contrario…). Declino dell’Italia o declino dell’Europa? Il ruolo internazionale dell’Italia ha indubbiamente subito un tracollo con la fine della guerra fredda, per quanto al paese siano stati necessari lunghi anni per capirlo – ed in fondo se lo abbiamo capito non lo abbiamo ancora accettato del tutto. Ma il punto è che tutta l’Europa ha perso la sua strategicità e coloro che si aspettavano con Obama un rilancio dei rapporti transatlantici, possono cominciare a mettersi il cuore in pace. Vari sono i motivi. Primo: Barack Omana è un uomo dell’estremo West, laddove la cultura ed il way of life sono influenzati dall’Asia, piuttosto che da un’assai distante Europa. Di più, Obama ha vissuto in Asia, laddove molti dei suoi predecessori avevano in un modo o nell’altro passato periodi in Europa. Il nuovo Presidente non ha quindi né radici né attaccamento affettivo di alcun genere nei riguardi dell’Europa. Secondo: forse proprio per questa lontananza dal Vecchio Continente, Obama è – a differenza della maggior parte dei leader mondiali – un uomo del XXI secolo, con la mente proiettata nel futuro. Le logiche e le problematiche della guerra fredda hanno lasciato il posto ai grandi problemi globali del futuro. Terzo (corollario): l’Europa non è più un problema, quindi non ha bisogno di particolari attenzioni e, soprattutto, Obama ha poco tempo da perdere con le sterili rivalità intraeuropee – schiacciato da difficili dinamiche domestiche ed internazionali e pressato da una corsa contro il tempo. Dai primi viaggi del Segretario di Stato Hillary Clinton (in Asia) ai recenti eventi, Barack Obama ha dimostrato con i fatti che la musica è cambiata, ma certamente non nel senso che gli europei auspicavano. Nella visione di Obama, l’Europa può seguire gli USA o restare dov’è. Prendiamo ad esempio il tema della governance globale: che dal G8 si sarebbe passati al G20 era nella natura delle cose, una natura che gli europei continentali (ed i canadesi) hanno continuato a negare: ma che senso ha un foro in cui quattro (più uno: l’UE) degli otto commensali passano il tempo a bacchettarsi? Obama ha partecipato, ascoltato e poi deciso. Lasciando i partner europei interdetti e di stucco. Ha graziosamente scelto questo o quel leader per la conferenza stampa, il punto è che la scelta è stata la sua. Oppure, prendiamo la Russia e, verosimilmente in prospettiva futura, l’Iran. Gli USA hanno usato i buoni uffici europei (ed italiani!) per riavviare il dialogo e, una volta riusciti nell’intento, hanno subito chiarito che si tratta di rapporto a due. Con buona pace degli europei, gli americani sono pronti a fare da sé. Cosa che è invero miope e rischiosa, certo, ma questa è un’altra questione. Il punto qui è che il declino internazionale dell’Italia è parte di un più vasto declino del Vecchio Continente, il quale continua imperterrito e sordo ad andare contro la storia. Laddove gli americani si attendono che il Trattato di Lisbona porti ad un attore unitario più credibile e meno contradditorio, gli europei si stanno alacremente dando da fare per ridurre il più possibile le prerogative del futuro Alto Rappresentante, usando i cavilli dei codicilli (ad esempio nella ripartizione delle competenze tra Consiglio Affari Esteri e Consiglio Relazioni Esterne…). Il declino dell’Italia non è isolato, dunque, è solo reso più evidente da una stampa – estera ed italiana – particolarmente accanita verso Berlusconi, oltre che dalla mancanza di una rendita di posizione, cosicché il credito italiano si è esaurito prima di quello degli altri. Grande potenza o media potenza? Se questa è la situazione, se l’Europa stessa è ormai ridotta ad una comparsa, come può l’Italia pensare di essere una grande potenza? Probabilmente non lo è mai stata, ma le circostanze storiche e la posizione geopolitica hanno prodotto questa grande illusione collettiva. Del resto gli americani – cui dobbiamo il nostro “glorioso” passato – eccellono nella public diplomacy e sono maestri nell’arte dell’adulare e del far sentire importanti coloro di cui (in un dato momento) hanno bisogno. Il momento d’oro è finito, aimè, è bene farsene una ragione. Questo non vuol dire che l’Italia è destinata a non contare nelle relazioni internazionali, anzi. Ma per contare, è necessario definire le aree privilegiate di intervento, sia tematiche che geografiche, individuando quelle dove davvero possiamo fare la differenza. Al quel punto basta “solo” agire coerentemente, ovvero ponendo in atto strategie di lungo periodo che davvero impegnino e coinvolgano il sistema paese, lasciando per sempre alle spalle i guelfi ed i ghibellini. Se è vero che ci sono voluti anni per prendere atto delle conseguenze per l’Italia della fine della guerra fredda, è anche vero che negli ultimi anni questa definizione della effettive priorità italiane sta pian piano ma seriamente avvenendo: Mediterraneo, Balcani, Russia, Europa, peacekeeping e peace-enforcing sono ad esempio alcune delle aree su cui stiamo lavorando con impegno e convinzione. Quella che forse ancora va perfezionata è una rete di alleanze che serva al meglio gli interessi italiani e che, soprattutto, sia affidabile. In certi ambiti questo è stato fatto con successo – si pensi alla coalizione United for Consensus – che verrà presto messa alla prova allorché si troverà a dover essere proattiva sulla questione della riforma ONU, rispetto ad una posizione sin’ora tutto sommato difensiva. Ma forse è il caso di fare di più; ad esempio, c’è una vaga coalizione di paesi del sud d’Europa – l’Olive Group – che non aspetta altro che l’Italia la prenda in mano e la rivitalizzi. Insomma, se si accettasse una volta per tutte l’evidenza, ovvero che l’Italia è una media potenza, potremmo diventare una grande media potenza. Federiga Bindi è Visiting Fellow alla Brookings Institution e Consigliere del Ministro degli Affari Esteri per la Governance Globale e le Relazioni Transatlantiche
L’Italia e il complesso di Calimero
È in corso in Italia un dibattito sul ruolo del paese nelle relazioni internazionali che sta fornendo interessanti spunti di riflessione. Ci sono, tuttavia, alcune considerazioni che non paiono essere state ancora sufficientemente approfondite. Primo: perché l’immagine della politica estera italiana è così insoddisfacente, nonostante che il ruolo che il nostro paese svolge sia positivo e generalmente riconosciuto come tale dai nostri partner? Secondo: il “declino dell’Italia” non deve piuttosto essere visto nel quadro di un sostanziale declino dell’Europa? Terzo: l’Italia è una grande o una media potenza?
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