Il dibattito pubblico che oggi si ripropone sul significato della rappresentanza dei lavoratori in una società pluralista venne affrontato, nelle sue linee di fondo, già durante l’Assemblea costituente quando si discusse il profilo democratico dell’Italia repubblicana.

Certo, ci separa da allora, una diversa consapevolezza storica. Avvalendoci, dunque, del giudizio maturato in circa sessanta anni di democrazia politica e sociale, tre considerazioni meritano di essere rapidamente proposte nel riflettere sul ruolo del movimento sindacale in relazione alla Carta costituzionale.
1. L’approfondimento storiografico sul dibattito costituente ha posto in luce le ragioni per cui, mentre si può riconoscere una “impronta nettamente sociale” nella Costituzione italiana, occorre osservare come i costituenti dettero vita, “approvando l’articolo 39, a un vero e proprio ‘mostro’ giuridico e culturale” (così Vincenzo Saba intervenendo nel 1998 in un convegno del convegno del CNEL). Il mancato accordo nei lavori della Costituente sui principi di libertà e responsabilità sociale in relazione al dibattito sul sindacato fece sì che nell’articolo 39, infine, l’affermazione che “l’organizzazione sindacale è libera” (comma 1 dell’art. 39) venisse contraddetta nel secondo comma dall’ “esigenza funzionale di dare comunque efficacia ai contratti” così come accaduto, in assenza di libertà, dal 1926. Il risultato fu, come ammise lo stesso Dossetti nel settembre 1948, “una delle cose imperfette della Costituzione”.
2. Oggi si può convenire, peraltro, sul fatto che la posizione maturata coraggiosamente nella Cisl nel 1950 portò l’intero movimento sindacale a implementare lo spirito costituzionale nella direzione di sviluppare nella libertà la forza associativa della rappresentanza dei lavoratori. La cautela di Pastore e Romani nei confronti “qualsiasi sistemazione giuridica del movimento sindacale, avendo presente che non deve in alcun modo determinare remore all’azione o vincolare la possibilità di sviluppo e di potenziamento del sindacato”, si collegava a una impostazione per cui “l’accoglimento del sindacato democratico e della sua azione nel seno della società civile organizzata” determinava “una costante e inderogabile esigenza strutturale della stessa” e costituiva “una garanzia e una difesa dell’ordine democratico" (art. 2 dello statuto Cisl).
3. L’evoluzione del movimento sindacale come soggetto sociale ha permesso, così, di introdurre anche l’esperienza italiana nella grande tradizione della moderna azione privato collettiva. In questo senso, osservava ancora Saba nel 1994, una volta acquisito il movimento sindacale un’autonoma posizione nella regolazione sociale, esso poteva essere chiamato a esercitare “oltre che un ruolo di rappresentanza di interessi, un ruolo quasi costituzionale, di contenimento e di limite di quel potere politico che nello stato rappresentativo dei partiti è destinato a non avere più od ad avere attenuato, quel sistema di pesi e contrappesi che era assicurato nello stato rappresentativo puro dal principio della divisione dei poteri”. Una riflessione, questa, che si collegava alla “lezione” di Giovanni Marongiu sui “principi democratici dell’economia” proposta all’inizio degli anni Novanta; si poteva intravedere nella “funzione regolativa del pluralismo sociale” la realizzazione “di un sistema poliarchico generato dall’insieme dei principi costituzionali e dalle forme di organizzazione dei soggetti, che non ha bisogno dunque di trovare sfere di svolgimento esterne all’ordinamento economico”.
E’ opportuno, dunque, riferirsi al profilo di libertà e di organizzazione dei principi sociali contenuti nello “spirito informatore di tutto il sistema costituzionale”(per dirla ancora con Dossetti) per comprendere come la chiave di volta per dar vita una virtuosa regolazione sociale sia ancora nella forza associativa e nella formazione culturale dei soggetti sociali, nella loro consapevole responsabilità di impiegare la libertà al servizio di una visione comune di progresso civile, sociale e, infine, politico.

rn

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