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Bisogna superare l’ipocrisia del dibattito pubblico per comprendere la profondità di quanto sta avvenendo nello scenario politico di questi giorni, acquisendo almeno alcuni criteri interpretativi per valutarne la profondità e l’orientamento.

1. Non c’è dubbio che per molti protagonisti della politica quotidiana l’interrogativo più pressante sia quello di individuare, ed inseguire, un riposizionamento adeguato all’ attuale gioco di specchi, anche per presidiare la quota di elettorato che si attribuisce, nel più breve tempo possibile.

Qualcun’altro si schiera a difesa di architetture e modelli elettorali, con calore e assolutezza, dimenticando che il loro successo è dipeso, e dipende, dagli schieramenti politici che ritengono di adottarli ai fini della vittoria della più prossima competizione elettorale.

Certo, essi contribuiscono ad increspare il mare del dibattito politico; peraltro, lo stato di agitazione degli uni e degli altri conferma semmai che non sono padroni delle ragioni che li portano ora a mobilitarsi. Si tratta di preoccupazioni legittime nel loro ambito, che tuttavia difficilmente possono essere seguite da coloro che cercano di farsi un’idea di quanto accade.

2. Proviamo, dunque, a mettere ordine seppure in breve e in chiave problematica.

Non pare andare lontano dal vero chi vede in questi ultimi passaggi una continuità con i processi di trasformazione che si sono manifestati nella vita politica subito prima e dopo il 1989. In Italia quel processo si è manifestato secondo la peculiare storia del nostro paese. Peculiare, tra l’altro, per la presenza di un PCI che aveva ancora il 26 % dei consensi nel voto del 1987 prima di essere travolto dal crollo ideologico del comunismo mondiale, per la tormentata diaspora dei partiti socialisti, per una DC che ancora nel 1993 era andato ben oltre il 29% dei voti durante la temperie di ”Tangentopoli”. Se, dunque, stiamo assistendo a un ulteriore passaggio di un fenomeno profondo di trasformazione dei partiti (dallo “stato dei partiti” ai partiti “leggeri”) manifestatosi con forza negli anni Novanta, quali sono i nodi da allora irrisolti? Due sembrano essere i principali.

In primo luogo l’evoluzione profonda della cultura politica. I paradigmi ideologici e sociali durante i primi cinquant’anni repubblicani sono progressivamente cambiati fino a rivoluzionare le tradizionali “famiglie” politiche. Nuove problematiche, prima sconosciute, si sono imposte o si stanno imponendo. Ma poiché la formazione culturale dei gruppi dirigenti tende a cristallizzarsi, questi assai difficilmente possono ambire a fare, come è stato detto, da padri nobili, levatrici e, magari, nascituri della nuova cultura.

Il secondo nodo (collegato al primo) è connesso a un necessario avvicendamento generazionale. In effetti, è mancata la formazione di una nuova classe dirigente. Il processo d’invecchiamento è stato giustificato dalla tradizionale classe dirigente, osservando che i giovani non si interessavano di politica o che comunque facevano rimpiangere i fondatori della repubblica. Ma chi ha formato una più giovane classe politica? A quale cultura politica quei pochi cui è stato consentito di accedere a qualche responsabilità sono stati educati? E’ stato osservato negli anni recenti che le apparenti novità nascevano già vecchie.

            3. Non è difficile pensare che da qualche tempo (e certamente prima delle ultime elezioni) le attuali leadership, con maggiore o minore misura, avessero avvertito la pressione politica di questi due problemi e che, ciascuno dal proprio punto di vista, abbia atteso finora il momento per provvedere, con le migliori posizioni di forza, per governare questi processi, pena il proprio indebolimento e quello dello stesso sistema democratico.

Chi ha a cuore il rafforzamento della società civile non può che rivendicare innanzitutto la possibilità di scelta e di partecipazione personale e collettiva, nei processi culturali e nella fase di scelta della classe politica, perché comprendendo la realtà sia in grado di operare una sempre più necessaria mediazione politica. Sempre che la trasformazione dei partiti sia accompagnata da opportuni contrappesi sociali all’uscita della lunga transizione.

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