Tutti principi che hanno un denominatore comune: la necessità che si misuri quello che l’amministrazione pubblica fa. Ed infatti si fa ampio riferimento nel testo alla necessità di stabilire criteri di misurazione oggettivi, standard di qualità, di efficienza e di efficacia. Si prevedono anche specifiche soluzioni organizzative volte a supportare questo processo: si rafforzano i compiti su questo fronte di ARAN, CNEL, Corte dei Conti, nuclei di valutazione, e si dà vita ad un nuovo organismo centrale incaricato di “indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio indipendente delle funzioni di valutazione”, di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione e di quelli di programmazione, di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale.
Quello della misurazione delle attività e dei risultati delle pubbliche amministrazioni è un punto centrale di qualsiasi processo di riforma moderno. La misurazione dei risultati della PA è stata al centro di processi di riforma che hanno interessato il Regno Unito sotto i governi Tatcher di inizio anni ottanta e che si sono poi diffusi nelle strutture pubbliche di tutti gli Stati occidentali (processi di riforma che erano ispirati al paradigma teorico del New Public Management)
In Italia, è dagli anni novanta che la legislazione relativa all’amministrazione pubblica spinge all’introduzione di sistemi di misurazione: è da quegli anni che sono entrati nel vocabolario della funzione pubblica termini quali “controllo di gestione”, “controllo strategico”, “contabilità analitica”.
Dagli anni novanta, molti passi avanti sono stati fatti nella pratica di gestione quotidiana di un ente pubblico. In alcuni settori i passi sono stati più significativi: in particolare, quelli in cui il rapporto con i cittadini è più diretto, o in cui si sono sentiti con maggiore intensità le pressioni di bilancio (come nel caso degli enti locali o della sanità).
Se i passi avanti sono stati notevoli, ancora più ampi sono i margini di miglioramento. In ultima analisi si tratta di attuare un cambiamento culturale nell’approccio stesso all’azione pubblica. Abitualmente, infatti, si dà maggiore peso al lancio delle iniziative pubbliche piuttosto che ai risultati effettivamente ottenuti. E’ significativo, ad esempio, che sia più rilevante sotto il profilo comunicativo l’annuncio di riforme, provvedimenti, nuovi servizi piuttosto che la rendicontazione dei risultati che tali interventi hanno generato. Allo stesso modo, è evidente come faccia più notizia l’approvazione dei bilanci preventivi piuttosto che quella dei consuntivi.
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Tale caratteristica deriva innanzitutto dal fatto che l’intervento pubblico non basta, da solo, a risolvere i problemi sociali. La complessità è tale che la pubblica amministrazione può ragionevolmente limitarsi a stimolare i comportamenti di altri soggetti affinché si creino le condizioni per la soluzione del problema. Si pensi agli interventi pubblici anti-crisi di cui tanto si parla in queste settimane: la loro efficacia è legata essenzialmente alla capacità di stimolare la fiducia degli operatori economici al fine di promuovere comportamenti che vadano nella direzione di rilanciare consumi ed investimenti.
In un quadro di questo tipo, dunque, il legame causa-effetto tra intervento pubblico e soluzione dei problemi sociali (nell’esempio, la crisi economica) è mediato dalla libertà (ed imprevedibilità) dei comportamenti individuali.
Concentrare l’attenzione sull’annuncio dei provvedimenti piuttosto che sugli effetti concreti che essi producono è comunque giustificato almeno sotto due punti di vista. Innanzitutto perché il raggiungimento del risultato non dipende solamente da chi ha messo in atto il provvedimento, ma da un numero elevatissimo di variabili; ciò rende particolarmente rischiosa l’assunzione di responsabilità sui risultati. In secondo luogo, perché proprio l’annuncio, prima ancora che il provvedimento sia operativo, può avere un’influenza notevole sui comportamenti e, quindi, essere esso stesso uno strumento di policy.
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La probabilità che i provvedimenti pubblici adottati hanno di incidere realmente sui comportamenti dipendono necessariamente dalle informazioni che si hanno a disposizione nella fase di programmazione. E le informazioni più rilevanti derivano innanzitutto dai risultati ottenuti da interventi pubblici precedenti. Non solo. La stessa capacità di incidere sui comportamenti individuali può essere aumentata grazie alla chiara definizione di obiettivi misurabili. Pensiamo ad un esempio che poco c’entra con la pubblica amministrazione, ma che sicuramente è indicativo: Telethon. La maratona televisiva per la raccolta fondi a favore della ricerca sulla distrofia muscolare ruota attorno ad un tabellone luminoso che riporta il totale delle donazioni via via raccolte. Quel tabellone, che rappresenta la misurazione di un indicatore di risultato, è in grado di far condividere a tutti gli spettatori l’obiettivo di superare la raccolta fondi dell’anno precedente e di motivarli a compiere una donazione.
Lo stesso principio potrebbe essere applicato anche all’interno di una pubblica amministrazione per motivare le risorse umane, per stimolare la creatività e l’intraprendenza dei funzionari pubblici verso la progettazione ed implementazione di interventi che siano meglio in grado, a loro volta, di incidere sui comportamenti dei cittadini.
Il sistema di misurazione consentirebbe anche di premiare in modo trasparente i funzionari proattivi e di sviluppare una competizione positiva verso la realizzazione di problemi collettivi. Insomma, darebbe una grossa mano al consolidamento della meritocrazia in ambito pubblico, dando il giusto riconoscimento a chi si adopera più degli altri per rispondere concretamente alle esigenze dei cittadini.
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Un primo passo dovrebbe consistere nel superamento della connotazione “legalista” dei sistemi di misurazione per riportarli alla naturale connotazione “gestionale”.
Ancora oggi i sistemi di misurazione sono circondati da un alone di timore e di diffidenza. Sono visti come un potenziale strumento di punizione piuttosto che come un’opportunità per mettere in luce il proprio valore. D’altronde, la loro stessa origine può avvallare questa interpretazione. Essi nascono come “obbligo di legge” e sono essenzialmente motivati dalla volontà di “colpire i fannulloni”.
Il continuo riferimento alla oggettività della misurazione, tanto da richiedere l’istituzione di un’apposita Authority indipendente, richiama un principio garantista piuttosto che funzionale, quasi ci si riferisse ad una disciplina penale, piuttosto che gestionale.
In un clima di questo tipo, anche i migliori potranno avere il giustificato timore che questi sistemi possano ritorcersi anche contro di loro e, quindi, sentirsi in dovere di frenare la loro effettiva applicazione. Risultato? I sistemi di misurazione diventano nella pratica l’ennesimo inutile appesantimento burocratico, da assolvere perché richiesto dalla legge, ma da svuotare di qualsiasi utilità pratica onde evitare spiacevoli sorprese.
A livello centrale, dunque, occorrerebbe iniziare a porsi il problema di creare le condizioni necessarie affinché si stimoli l’interesse degli operatori a realizzare e mantenere validi sistemi di misurazione, consapevoli che questo interesse non può derivare dalla minaccia di sanzioni disciplinari.
Nel Regno Unito hanno affrontato la questione introducendo, ad esempio, servizi di accompagnamento per gli enti che avessero voluto introdurre tali sistemi, banche dati di indicatori utili per tradurre in pratica la misurazione dei fenomeni, sistemi di benchmarking che consentissero di paragonare i risultati di amministrazioni diverse e che stimolassero una competizione virtuosa e lo scambio di best practices.
Di certo non si sono indirizzati verso la ricerca di un’oggettività assoluta delle misurazioni, ben sapendo che essa non esiste in natura. Insomma, hanno cercato di creare condizioni favorevoli affinché quello della misurazione diventasse un metodo gestionale interiorizzato e consolidato nella pratica quotidiana dei funzionari pubblici e non semplicemente la prova schiacciante da utilizzare nelle cause di licenziamento.