Secondo Luhmann “Senza fiducia l’individuo non potrebbe neanche alzarsi dal letto ogni mattina. Verrebbe assalito da una paura indeterminata e da un panico paralizzante” mentre Baier ricorda come “Abitiamo in un clima di fiducia come abitiamo un’atmosfera e ci rendiamo conto della fiducia così come ci rendiamo conto dell’aria che respiriamo, quando è scarsa inquinata”
La fiducia è così importante perché tutte le relazioni sociali ed economiche si svolgono nella “nebbia” dell’informazione imperfetta (non sappiamo fino in fondo chi abbiamo davanti e il nostro interlocutore spesso nelle transazioni economiche è addirittura uno sconosciuto). Non essendo possibile scrivere contratti di migliaia di pagine in grado di proteggerci da qualunque tipo di possibile abuso della controparte in ogni immaginabile situazione e conoscendo le lentezze della nostra giustizia – quando anche fossimo in grado di portare in giudizio il nostro interlocutore in caso di abuso – siamo costretti a fidarci. Usando una metafora, la fiducia è quella sostanza che facilita i rapporti interpersonali come i conduttori facilitano il passaggio dell’elettricità.
Numerosi studi empirici recenti dimostrano che il capitale sociale non è dato in quantità costante nel tempo ma può crescere e diminuire. Vale la pena pertanto domandarsi se ed in che modo la classe politica ha contribuito ultimamente alla sua crescita o meno.
Da questo punto di vista non possiamo non constatare come la cultura che la classe dirigente ci ha trasmesso negli ultimi anni (ed è questa a mia avviso una delle sue principali responsabilità) ha sistematicamente sgretolato i giacimenti di valore del nostro paese. Puntando progressivamente alla distruzione del senso dell’unità, esaltando soltanto furbizia ed opportunismo e facendo leva sugli istinti più bassi.
Il successo dell’Italia nel dopoguerra è stato determinato dall’abbinamento tra valori e flessibilità, tra principi universali e capacità di fare. Tramontati i primi è rimasta soltanto una sterile furbizia (i cui effetti macro sono stati enormemente tarpati dall’impossibilità di utilizzare come in passato le svalutazioni competitive) e la capacità di arrangiarsi, accompagnate da un’estemporaneità ed un improvvisazione sempre meno credibili agli occhi dei nostri partner internazionali. Guardando all’esempio della Germania troviamo invece capacità di programmazione e norme morali e sociali che rappresentano paletti importanti in grado di orientare l’agire sociopolitico in direzioni virtuose.
Ormai, dopo aver progressivamente sgretolato ogni elemento valoriale (lodevole eccezione da questo punto di vista è il lavoro di costruzione nostro presidente della repubblica) i politici al potere danno per scontato questo impoverimento morale e trattano i cittadini da minus habens promettendo giochi di prestigio e spostamenti di ministeri da una città all’altra e contrapponendo una regione all’altra.
Alcuni eventi recenti però indicano che forse il fondo è stato toccato e gli italiani sono stufi di questa falsa euforia dei depressi, di questa esaltazione dell’autointeresse miope che lascia dietro di sé solo macerie. Abbiamo voglia di valori anche correndo il rischio di un po’ di retorica. Ma soprattutto ne abbiamo bisogno per risollevare il paese perché non può esistere una società forte e competitiva se l’unica molla che la anima è lo scontro dei particolari contrapposti.
La politica che crea capitale sociale e quella che lo distrugge
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La politica che crea capitale sociale e quella che lo distrugge
I pilastri di ciò che è visibile sono invisibili. Gli indicatori di performance che ogni giorno osserviamo nel sistema economico (produttività, crescita, occupazione) trovano i loro fondamenti in un ingrediente cruciale che gli economisti chiamano capitale sociale. Il capitale sociale è un concetto contenitore che include la fiducia e la meritevolezza di fiducia nei rapporti interpersonali, la fiducia nelle istituzioni, il senso civico, la disponibilità a pagare per i beni pubblici e la morale fiscale (che è il contrario dell’evasione fiscale).
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