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La gravissima crisi economico-finanziaria che scuote i mercati internazionali scopre in forma altrettanto preoccupante il velo sull’incerto sistema politico-istituzionale della Ue. La cancelliera Angela Merkel, equilibratissima leader della locomotiva d’Europa, la Germania, non ha avuto esitazioni nel dichiarare che il default dell’euro significherebbe il fallimento del sistema politico della UE. Si tratta di una lettura che – nella sua brutale franchezza – pone con teutonica precisione agli occhi degli analisti la questione centrale di questa crisi: chi decide cosa in Europa.
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Ad oggi infatti – volendo analizzare le risposte dei sistemi politici occidentali ai profondi rivolgimenti dei mercati internazionali – due sono le questioni che appaiono irrisolte: l’incapacità di gestione dei processi di internazionalizzazione della governance nella globalizzazione delle società civili ed in particolare la risposta istituzionale nell’immediato del Vecchio Continente in grado di tutelarci dall’alluvionale crollo delle bolle speculative USA e dall’arrembaggio disinvolto delle politiche d’investimento cinesi.
Come afferma il britannico Chris Patten, uno dei più autorevoli statisti europei che ha partecipato al processo di integrazione UE, da Maaastricht in poi, l’Europa sta pagando il pesantissimo scotto di una mancata lungimirante strategia politica organica di integrazione almeno dal 1992 ad oggi.
Primo punto: da un lato è pur vero che – dalla fine del secolo scorso, e con la fine della Guerra fredda in particolare – il modello politico-istituzionale dello Stato sovrano si è mostrato sempre più in difficoltà nel gestire problematiche che non è in grado di risolvere da solo. L’economia, la finanza, le relazioni internazionali, l’immigrazione, i conflitti militari asimmetrici e terroristici, le questioni inerenti la libertà religiosa strumentalmente utilizzate dal fondamentalismo islamico, impongono risposte globali, internazionali e sovranazionali.
Ad oggi tuttavia è doveroso evidenziare come le risposte in chiave di istituzioni internazionali si siano spesso se non sempre rivelate inadeguate a sostituirsi al ruolo dello Stato: in altri termini i modelli politici-istituzionali internazionali – come l’ONU – o sovranazionali – come la UE – non sono assolutamente stati in grado di riassumere in sé le risposte rassicuranti che lo Stato è in grado di dare ai propri governati attraverso la funzione legislativa o decisionale politica, la funzione amministrativa o esecutiva di governo e la funzione giudiziaria o sanzionatoria delle violazioni di legge.
Stiamo cioè attraversando da troppo tempo un guado assai pericoloso, che dovrebbe condurci alla definizione di modelli politici-istituzionali internazionali in grado di supplire alla inadeguatezza dei sistemi-Stato garantendo al contempo che alla cessione di potere sovrano corrisponda una seria e rassicurante assunzione di responsabilità da parte dei nuovi organismi internazionali.

Il tallone d’Achille delle istituzioni di governo UE sta nel cosiddetto "deficit democratico": ovvero l’estrema confusione e conflittualità nella distribuzione dei poteri legislativo-normativi ad una pletora di organismi sovente in concorrenza tra loro, la Commissione, il Consiglio, l’Europarlamento.
Ciò deriva dall’irrealistico disegno tracciato a suo tempo, in particolare dopo Maastricht, volto ad accelerare i tempi ai fini della costituzione di un’Europa federale.
Di fronte alla impossibilità di bypassare il modello delle democrazie nazionali a favore di un unico grande Stato europeo, i trattati UE che si sono succeduti dagli anni novanta, Amsterdam, Nizza, Lisbona, hanno ripiegato su compromissorie ingegnerie istituzionali che esasperano il conflitto tra poteri esclusivi e concorrenti di Bruxelles e delle singole cancellerie.
Accanto alla cosiddetta "dimensione comunitaria" normativa che disciplina uniformemente le materie del commercio e del lavoro, marginalizzando il ruolo dei governi degli Stati membri della UE, abbiamo le "dimensioni intergovernative" della politica estera, di sicurezza comune, della giustizia, degli affari interni, della previdenza, del fisco, della pubblica amministrazione in cui primeggia il potere decisionale dei singoli Stati.
Va da sé che – seppur semplificato nella descrizione – un simile vestito politico alla "arlecchino" non abbia in sé gli strumenti normativi per rispondere in modo celere, omogeneo ed efficace ad eventi di crisi internazionale così gravi.
In realtà, volendo rileggere con acribia la storia della costruzione politica ed istituzionale della UE è difficile negare che l’inadeguatezza delle attuali istituzioni comunitarie sia l’esito infelice della tesi "funzionalista" propugnata dall’allora Ministro degli Esteri francese Schumann, padre dell’omonimo piano Schumann che avviò la cooperazione nel settore del carbone e acciaio tra i sei Paesi che crearono la CECA.
Secondo i sostenitori di questa tesi, che ha trovato a lungo, per decenni, ed ancor oggi parecchi sostenitori, l’integrazione europea doveva attuarsi attraverso il graduale trasferimento di competenze e sovranità in settori bene determinati alle istituzioni comunitarie, indipendenti dagli Stati: tappa intermedia verso un’unione di tipo federale.
La storia pare smentire nei fatti questo opportunistico modello funzionalista, riproponendo, come eficacemente annota Chris Patten, una UE dalla natura a "due velocità", in cui le differenze e specificità dei singoli Stati sovrani possa e debba essere un valore aggiunto e non già motivo di contrasto: solo gli Stati che condividano una piattaforma valoriale forte, un’unica moneta, una politica fiscale omogenea, un sistema previdenziale solidale e non parassitario, un’unica politica estera e di sicurezza capace di essere intransigente nell’interesse comune possono ragionevolemente continuare a credere nella zona Euro.

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