Questione seria, e tutt’altro che pretestuosa, come le cifre percentuali della presenza delle donne negli organismi istituzionali dimostrano. Proprio per questo però vorremmo sottrarla a questo tipo di polemiche che si situano a metà tra il pregiudizio estetico (magari di segno rovesciato…) e il gossip mediatico.
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Infatti la spinta rivendicazionistica che pure ha le sue ragioni in un paradigma di uguaglianza delle opportunità, non esaurisce il problema e rischia di farne dimenticare le motivazioni ideali e valoriali.
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Questa riflessione, per necessità sintetica, vorrebbe indicarne alcuni essenziali elementi. E’ anche questo un modo per uscire da un orizzonte di pensiero che per brevità chiameremo “novecentesco”, per il quale la differenza di genere ha finito con il dare per scontato il carattere diverso del modo femminile di esercitare il potere (più orizzontale, più relazionale, più concreto?) non sempre suffragato dai fatti. Non basta essere donna per fare una politica di segno femminile.
Due recenti letture suggeriscono altrettanti direzioni di ricerca. La prima riguarda il rapporto tra il fare politica e la relazione con la figura materna. Qui, secondo Luisa Muraro (Al mercato della feilicità, Mondadori 2009) si colloca il segreto della politica delle donne. Se è la madre la prima figura di “potere” che incontriamo sulla nostra strada, appartiene alle figlie la capacità e la possibilità di pattuire con lei gli spazi di quel potere, che per loro è possibile emulare. Di qui una capacità di mediazione e pattuizione che segnerebbe positivamente il modo femminile di praticare la politica, oltre il codice della forza che sottostà al modo “maschile” tuttora dominante. Una tesi interessante, che, oltre tutto, ci dà modo di valutare le donne che vogliono fare politica a partire dalla capacità di superare modelli di competizione esasperata anzitutto con le loro simili…La trasversalità femminile più volte invocata a favore di una politica capace di superare antichi steccati ideologici avrebbe questa radice profonda e non si esaurirebbe in una puro pragmatismo senza ideali.
La seconda suggestione viene da un sociologo del tutto estraneo al pensiero femminista, Alain Touraine, che nel recentissimo “Il mondo è delle donne”( Il Saggiatore) si interroga sul nuovo protagonismo femminile, sociale e culturale, intravedendo nella capacità femminile di non aderire totalmente al ruolo sociale assegnato il segno di una particolare vicinanza alla vita, alla sua ricchezza e complessità e un’attenzione alla sfera privata che, dopo essere stata marginalizzata insieme alle donne, torna ora prepotentemente e grazie a loro come il vero cuore pulsante della politica postmoderna, il valore a cui commisurare ogni finalità comune.
Pattuizione anziché conflitto mortale per il potere, vicinanza alla vita reale e alla verità degli affetti piuttosto che ideologie totalizzanti. Se in ciò veramente dovesse consistere la politica delle donne in vista del bene comune, la ragione per mandare più donne in Parlamento uscirebbe dal Novecento e potremmo liberarci dai rituali di un rivendicazionismo sterile o di un pregiudizio antifemminile spesso nascosto e talvolta agito dalle stesse donne, malgrado loro.