Oltre alla modifica della principale delle imposte sul patrimonio, l’ici/imu (art. 13), nel decreto si possono contare almeno altri cinque interventi, inerenti all’inasprimento della tassazione di auto di lusso, imbarcazioni e aerei (art. 16), alla modifica dell’imposta di bollo sugli strumenti finanziari (art. 19), all’introduzione di un’imposta di bollo speciale del 4 per mille sulle attività finanziarie derivanti dagli “scudi fiscali” del 2009 e 2001 (art. 19, comma 6), all’introduzione di un’imposta sugli immobili esteri detenuti da soggetti residenti (art. 19, comma 13) e all’imposta sulle attività finanziarie estere di soggetti residenti (art. 19, comma 18).
Le tessere che compongono il mosaico sono dunque molte, la trama, come detto, vorrebbe essere unica. Nel poco tempo a disposizione del governo Monti, ritengo che questa scelta fosse obbligata. Oltre alla volontà politica – un’imposta generale sul patrimonio ha un impatto sull’opinione pubblica ben diversa rispetto alla tassazione delle auto di lusso o dello scudo fiscale –, tale forma d’imposizione richiede un approfondimento decisamente superiore sia a quello di conversione di un decreto legge sia a quello concesso dai mercati finanziari. Ciò detto, tale soluzione presenta alcune ombre. La prima è la discriminazione fra le diverse forme di beni patrimoniali, mobili e immobili, e fra i diversi beni mobili. In secondo luogo, per quanto si sia cercato di estendere l’imposizione a tutti i beni patrimoniali, alcuni sfuggono al decreto, es. le opere d’arte e i gioielli. Da ultimo, un’imposizione separata dei singoli beni patrimoniali non consente di considerare l’intero patrimonio riferibile a un soggetto. Ovviamente, quest’ultimo profilo è irrilevante allorché si opti per un’imposta generale sul patrimonio con aliquota proporzionale e senza soglia di esenzione, ma è un elemento decisivo allorché, conformemente al dettato costituzionale (art. 53, comma 2), si scelga un’imposizione (moderatamente) progressiva del patrimonio.
Privilegiare le singole tessere, dunque, distoglie dalla trama complessiva. Con tutta onestà, si deve ammettere che era il massimo realizzabile nelle attuali condizioni.
Sul piano quantitativo, la parte prevalente del decreto deriva dalle modifiche alla tassazione degli immobili. Il maggior gettito dovrebbe essere pari a 11 mld di euro (su 30 complessivi).
Tale risultato è conseguenza
(a) dell’anticipazione dell’imposta municipale propria (imu) al 2012 in sostituzione dell’ici, anziché al 2014, come previsto nel decreto sul “federalismo municipale”,
(b) della reintroduzione della tassazione sull’abitazione principale e le relative pertinenze;
(c) dell’introduzione della tassazione degli immobili esteri posseduti da residenti.
I parametri per la valutazione di tali interventi sono molteplici. Queste brevi note si limiteranno a considerarne due: il profilo della coerenza dei presupposti e delle basi imponibili tassate e l’incidenza sull’autonomia finanziaria dei comuni.
La principale caratteristica (e differenza) dell’imu rispetto all’ici è l’eliminazione della tassazione del reddito degli immobili non locati (irpef). Poiché tale reddito non era effettivo, la sua eliminazione (e il contestuale aumento dell’aliquota imu per compensarne l’eliminazione) appaiono del tutto coerenti. Trattandosi di una componente economica para-patrimoniale, l’attrazione all’interno di una imposta patrimoniale è ispirata da ragioni di razionalità sistematica.
La vera novità della (nuova) imu è tuttavia il ritorno della tassazione della prima casa. Anche in questo caso, in una prospettiva esclusivamente economica, tale intervento appare coerente. Il proprietario della casa di abitazione, infatti, esprime una maggior forza economica rispetto a chi vive in affitto. Le ragioni che hanno condotto alla sua eliminazione, è noto, s’ispiravano a valori diversi da quello della forza economica.
Da ultimo, appare coerente anche la tassazione degli immobili esteri del soggetto residente, intervento che s’inspira nella direzione di una complessiva imposizione patrimoniale sugli immobili. Nel tempo, la soluzione ideale potrebbe essere quella di un’unica imposta patrimoniale sugli immobili. Ciò consentirebbe anche di introdurre una moderata progressività nei confronti dei possessori di più immobili.
Sul piano invece della coerenza sistematica e della ratio, la limitazione dell’imposta sugli immobili esteri alle sole persone fisiche residenti, con esclusione delle società e degli enti diversi dalle persone fisiche, suscita qualche dubbio.
Passando all’autonomia finanziaria comunale, la reintroduzione dell’imu sulla casa di abitazione rinvigorisce il debole “federalismo municipale” disegnato dal decreto sul “federalismo municipale”, poiché rafforza il controllo democratico dei residenti sulla spesa comunale. Sul punto, è sufficiente rimandare a quanto già pubblicato dal titolo sul sito di www.benecomune.net (Federalismo municipale: ultimo atto?).
Più problematici appaiono, diversamente, la compartecipazione statale all’imu e la riduzione del fondo perequativo. Fino a oggi eravamo abituati a forme di compartecipazioni ai tributi statali a favore delle autonomie locali, strumento classico dei sistemi decentrati. La compartecipazione statale a un tributo proprio comunale è invece una novità e non va certamente nella direzione della semplificazione del sistema. Mi chiedo se non sarebbe stato opportuno ridurre le compartecipazioni ai tributi statali, lasciando ai comuni il gettito integrale dell’imu. Lo stesso dicasi per la riduzione del fondo sperimentale di riequilibrio e del fondo perequativo. Poiché tali strumenti hanno una funzione di equalizzazione delle risorse comunali, la riduzione delle compartecipazioni sarebbe stato maggiormente coerente con l’impianto costituzionale.
In estrema sintesi, il bilancio sembra positivo per ciò che riguarda la coerenza degli interventi in termini di forza economica dei soggetti. Per certi versi schizofrenico, comprendendo anche alla riduzione della base imponibile irap, appare l’atteggiamento del legislatore nei confronti dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali. O meglio, forse non di schizofrenia, ma tale autonomia è relegata (ormai da anni) in posizione subalterna rispetto alle esigenze della finanza pubblica statale.