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Durante un incontro con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, il Presidente della Repubblica ha dichiarato: “è una follia che i figli di immigrati nati in Italia non siano cittadini”. Napolitano ha fornito diverse argomentazioni a sostegno di questa tesi, rimarcando come il riconoscimento della cittadinanza ai bambini nati da genitori stranieri potrebbe risultare vantaggioso ed utile anche per gli attuali cittadini, dato che consentirebbe ad una “società invecchiata se non addirittura sclerotizzata” di “acquisire nuove energie”.

Come era prevedibile, queste parole hanno suscitato molte e contrastanti reazioni: in particolare, alcuni politici hanno lodato Giorgio Napolitano, apprezzandone la lungimiranza e la sensibilità, altri, senza entrare nel merito della questione, hanno criticato lo stile utilizzato dal Presidente, condannandone la eccessiva enfasi: è stato detto che un soggetto istituzionale necessariamente “neutrale” non dovrebbe esprimere posizioni politiche così nette; altri ancora, sempre senza entrare nel merito della questione, hanno criticato la tempestività di una simile dichiarazione, ritenendo che, in questo particolare momento storico, l’Italia avrebbe ben altri e diversi problemi di cui occuparsi. Infine, il Presidente è stato criticato nel merito, poiché coloro i quali sono da sempre palesemente ostili all’accoglienza ed all’integrazione degli immigrati, ritengono che il cambiamento delle regole sulla cittadinanza potrebbe essere il primo passo per arrivare, successivamente, a modificare anche le regole elettorali.
In primo luogo, sono rimasto colpito dalla critica per così dire “stilistica”. Io credo che il Presidente della Repubblica, quando esprime le proprie opinioni e lo fa, per di più, in una occasione officiale, abbia il dovere di pesare con attenzione le parole, ponderando con esattezza ogni termine, perché il Presidente, garante della Carta Costituzionale, rappresenta la Nazione nella sua interezza e non dovrebbe in alcun modo esprimere opinioni politiche. Eppure, mi sembra davvero curioso che qualcuno abbia rimproverato a Napolitano l’utilizzo del termine “follia”, visto che nel nostro Paese i politici hanno da tempo cambiato registro linguistico, passando dalle fredde ed ingessate tribune elettorali degli anni 80 alle risse da pollaio che affollano quotidianamente i palinsesti televisivi. Voglio dire, nell’arco di soli venti anni, siamo passati da un politichese astruso fatto di “convergenze parallele” ad un linguaggio sempre più “basso”, fatto di slogan da stadio e di barzellette.

Non di rado, i nostri rappresentati Istituzionali dicono le parolacce, si tratta di una circostanza talmente frequente che nessuno vi fa più caso. Per fare solo due esempi particolarmente evidenti: se l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha bestemmiato in pubblico ed ha dichiarato, nel corso di una conferenza stampa, che tutti gli elettori della avversa fazione politica avrebbero dovuto essere considerati dei “coglioni”; il leader di uno dei principali partiti italiani si esprime da sempre alzando il dito medio, quando non addirittura a pernacchie. Con questo, intendo dire che trovo francamente risibile che le parole di Giorgio Napolitano siano state criticate perché “troppo forti”. Capisco che al Presidente si chieda una particolare attenzione nelle sue esternazioni -attenzione che chiederei ad ogni politico italiano, in special modo a chi ha la fortuna di ricoprire incarichi di prestigio-, ma non capisco cosa ci sia di scandaloso e di eccessivo nei termini che ha inteso spendere. Il fatto che il Presidente rappresenti il Paese nella sua interezza non significa che egli non possa avere opinioni e che non abbia il diritto di esprimerle.
Per quello che riguarda la tempestività, non riesco sinceramente a comprendere quale sia il senso di questa critica. Ovviamente, l’Italia si trova in un momento molto delicato; per combattere una crisi economica ogni giorno più preoccupante, abbiamo dovuto approntare in fretta e furia un governo tecnico, chiedendo a questo nuovo esecutivo di rimediare ad un lungo periodo fatto di sprechi e di proclami ottimistici. Cosa abbia a che fare tutto questo con le dichiarazioni di Napolitano, sinceramente, mi sfugge. Voglio dire, non possiamo chiedere al Presidente di parlare esclusivamente della crisi e non vedo in che modo le sue parole possano aver peggiorato la situazione. Anzi, credo che quelle parole possano essere apprezzate proprio se poniamo mente al contesto in cui viviamo e che il riferimento operato da Napolitano ad un Paese vecchio e bisognoso di forze possa essere compreso proprio in questa ottica: diciamolo chiaramente, noi abbiamo bisogno degli immigrati, perché dagli immigrati può arrivare quella forza lavoro e quell’apporto in termini di nuove nascite che noi non siamo più in grado di garantire al Paese.
Infine, la questione del voto. Se ci poniamo sotto questa particolare prospettiva, una prospettiva eminentemente politica, allora possiamo comprendere con maggiore facilità gli attacchi che sono stati mossi al Presidente. In verità, molti hanno temuto che le parole di Napolitano urtassero la Lega Nord ed il suo elettorato, in molti hanno temuto che quelle dichiarazioni avrebbero causato un vulnus al nascente governo Monti. Di fatti, la Lega non ha gradito le esternazioni di Napolitano, criticandole aspramente sotto ogni punto di vista. Tutto ciò risulta, come minimo, paradossale. È paradossale che questa forza politica – pur essendo sempre pronta ad operare un vivace richiamo alle radici ed all’identità storica dei popoli- si “dimentichi” quale sia la matrice storica e culturale che ha forgiato la nostra comune identità. Non è un mistero che l’identità occidentale possieda, essenzialmente, due radici: la religione ebraico-cristiana e la cultura greca. Se possiamo perdonare a qualche politico e ai suoi elettori di non conoscere la filosofia classica, di non aver letto l’Odissea – o di non saper rintracciare, all’interno di quel poema, un affresco sul valore antropologico della ospitalità-; se possiamo perdonare a qualche politico e ai suoi elettori di non conoscere le sacre scritture -o di non sapere rintracciare, al loro interno, i continui ed espliciti richiami alla accoglienza nei confronti dei pellegrini-; diviene particolarmente difficile concedere a chi vuole difendere la nostra cultura dalle invasioni barbariche di non sapere come è stata costruita, di fatto, la ricchezza di questo Paese: basterebbe una non troppo erudita analisi dei flussi migratori -interni ed esterni ai confini- per svelare l’arcano.
Insomma, l’auspicio del Presidente è pienamente condivisibile; lo è per lo stile utilizzato, talmente moderato da risultare assolutamente sui generis nel panorama della comunicazione politica italiana- lo è per il momento in cui è stato pronunciato -perché ora dobbiamo saper guardare al futuro, se non vogliamo rassegnarci ad uno stato emergenziale permanente- e lo è, soprattutto, dal punto di vista contenutistico, perché l’accoglienza è un valore che appartiene, senza ombra di dubbio, alla nostra identità più profonda e condivisa.

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