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Colpisce l’accentuarsi in questi giorni della polemica pubblica condotta su autorevoli quotidiani nazionali da parte di noti analisti e opinion-makers “riformisti” contro il sindacato, considerato come sede di ogni vizio “corporativo” e come forza d’impedimento al conseguimento di provvedimenti di modernizzazione ritenuti necessari.

E’, infatti, singolare che proprio queste accuse, abbandonando i toni e i distinguo che dovrebbero accompagnare l’approfondimento dei problemi di una società complessa, vengano proposti dai mentori delle libertà e della crescita civile, attraverso processi socio-politici di ampio consenso. Si tratta, probabilmente, di un grave errore di prospettiva.

A qualsiasi livello della vita socio-economica e in qualsiasi Paese economicamente avanzato (nazionale e internazionale) la crescita di un movimento sindacale partecipativo e responsabile ha messo fuori gioco le sacche di resistenza di interessi corporati e permesso di compiere riforme equilibrate. Del resto, il sempre più accentuato processo (in Italia certamente più faticoso che altrove) di convergenza del pluralismo sindacale nell’area della responsabilità verso il benessere collettivo e del sostegno a processi di cambiamento viene, da sempre, considerato dalla sinistra rivoluzionaria come il peggiore avversario riformista, come testimoniano anche i numerosi assassini di studiosi assai diversi tra loro ma, comunque, vicini al cammino riformista dei sindacati.

Probabilmente, il gradualismo delle riforme non appare abbastanza veloce ad alcuni “novatori”: ma viene da domandarsi come mai impianti socio-politici dal carattere illuministico o neodirigista non hanno saputo far meglio. E’ singolare che commentando da ultimo il caso francese, non si rilevi il bisogno che in quel paese e in quel governo si manifesti un sindacalismo associativo e maturo. Viene da domandarsi, peraltro, se la società civile sia più rappresentata dai circoli elitari che si autodefiniscono da essa promossi o dalla forza associativa delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese, quotidianamente impegnata in azione di tutela di interessi, ma anche di responsabile negoziazione per modificare, innovando, la realtà.

Sia consentito, infine, riportare alcuni passaggi dell’editoriale di una nuova pubblicazione di studi e di approfondimento, “Sindacalismo. Rivista di studi sulla rappresentanza del lavoro nella società globale” (edita da Rubbettino) che sembra suggerire altri scenari rispetto alla tendenza a “colpevolizzare” un’esperienza di rappresentanza collettiva quanto mai necessaria al sostegno di un processo di trasformazione economico-sociale, incoraggiandone la rappresentatività associativa e una migliore capacità d’interpretazione della realtà:

“…non si vede dunque per quale motivo l’accesso alla governance di una società libera debba essere consentito solo per una parte della classe dirigente; non si comprende come una società aperta possa essere tale solo per alcune sue componenti, mentre alcuni attori sociali debbano ancora essere respinti fuori dell’uscio. Non mancano certo nell’esperienza storica e presente del movimento sindacale elementi di debolezza e di fragilità; ma questi elementi, non solo in Italia e in Europa, talora accentuati dalla leadership sindacale, appaiono spesso presenti anche in altri attori sociali e politici, nell’economia come nei partiti, nelle scienze come nei media.

            La richiesta d’indirizzare i differenti profili dell’azione pubblica e privata a sostegno del bene comune della società, contenendo i rischi conflittuali e favorendo la ricomposizione di un tessuto sociale partecipativo e civile, costituisce un orizzonte comune alla rappresentanza dei lavoratori, dell’impresa responsabile e delle istituzioni al servizio dei cittadini.

            […] Attardarsi a considerare il “sindacato”, cristallizzato in un fotogramma unitario del passato, come l’origine di qualsiasi vizio e di ogni tentazione corporativa, non solo appare segno di una cultura non aggiornata, ma anche espressione di una visione irrealisticamente ancorata alla falsa alternativa tra la chimera di un neo anarchismo liberista e il fantasma di un neo statalismo regolatore. La richiesta di governance sociale che si propone in Europa e dall’Europa, come il necessario accompagnamento di un government politico più efficace, e la formazione di contrappesi sociali frutto di radicati processi associativi suggeriscono possibili percorsi per nuovi processi di sviluppo economici e civili, prima che politici. Forse bisogna acquisire l’habitus a pensare ed a augurarsi che il movimento sindacale sia uno di quegli attori sociali solidali, responsabili e partecipativi di cui necessita, in una regolazione sociale virtuosa, una società aperta.”

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