Professore, lei ha dichiarato in occasione dell’incontro: “Sono proprio le difficoltà sopraggiunte in tema di finanza pubblica che possono rappresentare un’occasione propizia affinché il Terzo settore diventi co-protagonista di quella svolta epocale da tempo invocata in materia di determinazione delle politiche pubbliche”. In che modo?
Fino a quando le risorse del bilancio pubblico per la spesa sociale sono state relativamente abbondanti è evidente che ai soggetti del Terzo Settore non potesse che applicarsi un ruolo ancillare, di supporto e collaborazione con le politiche pubbliche locali. Ora che queste risorse sono venute a mancare per le ragioni oramai a tutti note, è evidente che ci troviamo di fronte ad una scelta: o tagliare, come fino ad ora è stato fatto, i servizi sociali e in tal modo provocare ingiustizie inenarrabili oltre che rischi alla tenuta della stabilità socio-politica del paese, oppure prendere questa occasione per innovare radicalmente il modello di welfare. Io sono a favore di questa seconda opzione. Se si segue questa seconda via il ruolo del terzo settore non potrà che aumentare in modo esponenziale, perché al Terzo Settore saranno assegnati compiti non più ancillari, di mera esecutorietà, ma di progettazione assieme all’ente pubblico, raccolta fondi, ma soprattutto di capacità di attuare quel modello di sussidiarietà circolare che si sta diffondendo a livello di prassi politica nel nostro paese.
La crisi della finanza pubblica più che un rischio anche per il settore non profit in questo momento delicato per lei è un’opportunità?
È il discorso del vedere il bicchiere o mezzo pieno o mezzo vuoto. Io sono tra gli ottimisti. La situazione che stiamo vivendo non è piovuta dal cielo, non è dovuta ad uno tsunami, ad un fatto di natura. Ma è la conseguenza di un modo sbagliato di interpretare il processo di sviluppo, dell’abbandono dell’etica delle virtù. La responsabilità ce l’hanno quei falsi maestri di pensiero che fino a pochi anni fa pensavano che l’individualismo, unitamente all’atteggiamento auto interessato delle persone e dei soggetti economici potessero risolvere tutti i problemi. Dovrebbero ammettere che si erano sbagliati, ma questo non avviene. Ecco perché io in questa fase vedo un’opportunità per il Terzo Settore che però deve essere pronto ad accogliere questa opportunità.
Secondo lei non è pronto?
Dentro il Terzo Settore ci sono delle sacche di resistenza, minoritarie fortunatamente. La pigrizia di avere i soldi sicuri della pubblica amministrazione, di eseguire ciò che l’ente locale ti dice di fare è comodo, perché non ti dà la responsabilità e soprattutto ti dà la certezza dei pagamenti. Muovendosi vero la sussidiarietà circolare da me suggerita invece il Terzo Settore si troverebbe ad affrontare i rischi come qualsiasi imprenditore, comportandosi come soggetti (imprenditori sociali, civili) che innovano, assumendosi però il rischio.
Quindi secondo il suo modello il Terzo Settore dovrebbe cercare i soldi altrove?
I soldi chi li ha? Il mondo delle imprese. Lo Stato non li ha, il Terzo Settore non li ha per definizione e quindi bisogna andare a prenderli là dove ci sono, e ce ne sono tanti. Ecco perché parlo di sussidiarietà circolare.
Ma questo quadro non è complicato ulteriormente dalla riforma del federalismo fiscale?
Il federalismo adesso non potrà partire perché la corte dei conti ha detto che non ci sono le risorse. Abbiamo la legge sul federalismo, abbiamo approvato otto decreti però la riforma adesso non può partire perché per la fase iniziale, che può durare dai 2 ai 4 anni, occorreva prevedere dei costi per avviare il processo, i cosiddetti costi di transizione. A transizione avvenuta i vantaggi supereranno di gran lunga i costi e quindi il bilancio netto sarà positivo, ma siccome le risorse aggiuntive non ci sono, ci troviamo oggi davanti ad un paradosso: abbiamo una bella confezione che rappresenta l’assetto giuridico-istituzionale della riforma che però dentro è vuota perché la riforma non può partire.
Il federalismo, riforma che ha messo in evidenza più che mai le differenze tra Nord e Sud del paese, non rischia di acuire le disuguaglianze territoriali visti anche i differenziali territoriali della presenza del settore?
Questo non è assolutamente vero, perché la disuguaglianza c’è adesso. Quando la riforma entrerà a regime, tra 3-4 anni, sempre che si possa partire, i servizi alla persona miglioreranno notevolmente al Sud rispetto ad adesso. Non è un miracolo! I servizi adesso sono inferiori perché sono erogati dalla pubblica amministrazione locale. Che notoriamente al sud è inefficiente. Adesso chi abita al sud sconta questa situazione, ma dopo starà meglio. Ma tutto questo presuppone che il federalismo fiscale arrivi a regime. Saranno istituiti anche fondi di perequazione che tengono conto della disuguaglianza. Quando i servizi cominceranno ad essere erogati sotto un piano che sarà pariteticamente approvato dall’ente pubblico, dal mondo delle imprese e dal Terzo Settore, allora vedremo che i disservizi dovuti alla burocrazia spariranno perché l’ente pubblico varrà quanto gli altri e si realizzerà l’universalismo. Perché il welfare deve rimanere universalista, ma ora lo è solo sulla carta. Quindi bisogna smettere con le mistificazioni sul federalismo. Il vero problema è farlo partire.
Quindi ben venga il federalismo, soprattuto per il Sud…
Molti che discettano di queste cose non hanno mai visto la realtà del Sud. Da almeno un decennio sta nascendo un terzo settore nuovo, molto in gamba: cooperative sociali, volontariato, fondazioni. Non aspettano altro che di avere il semaforo verde. Posso testimoniare che al Sud c’è una nuova generazione pronta, attiva. Ecco allora a cosa serve il federalismo. A togliere i lacci e lacciuoli.