Il problema economico è un problema di relazioni, di interessi reciproci che si confrontano affinché s’incontrino; il problema che solleva l’analisi economica – ed invero la riflessione sull’agire quotidiano – è riconducibile al tentativo di offrire una risposta – la più semplice ed esaustiva possibile – alla domanda che sgorga dall’essenziale inclinazione dell’uomo di natura relazionale. L’aforisma di Röpke fa emergere l’esigenza (introdotta dal Cristianesimo) di una figura d’uomo che si completa e si realizza nella misura in cui si apre al rapporto con l’altro; in tal modo il bene comune ci appare come un valore perseguito in tutti i suoi aspetti sociali e morali e raggiunto dall’azione coordinata dei singoli e delle comunità.
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Tali considerazioni di ordine generale ci consentono di guardare con interesse l’iniziativa della CEI annunciata il 2 febbraio dal Segretario della Conferenza Episcopale, Mons. Marino Crociata: «Davanti alla situazione economica che va incontro ad una grande crisi, i vescovi italiani intendono rafforzare le Caritas diocesane e parrocchiali, da tempo impegnate per aiutare i più deboli, ma hanno anche stabilito di intraprendere un’iniziativa straordinaria che avrà come destinatarie le famiglie che subiranno conseguenze dalla crisi con la perdita del lavoro o a causa di mutui che non riescono a sostenere. Il Fondo – precisa Mons. Crociata – sarà alimentato con l’apporto delle diocesi». L’iniziativa della CEI segue di qualche mese quella dell’Arcidiocesi di Milano e risponde ad un’essenziale cultura della partecipazione. Essenziale, avrebbe scritto il prof. Zampetti, ai fini dello sviluppo di un processo democratico, la cui articolazione sia orientata al rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale: spetta all’autonoma capacità organizzativa della società civile tentare di rispondere ai problemi che da essa emergono. Allo Stato spetta l’indicazione delle regole ed il controllo che chi opera lo faccia nel quadro delle regole stabilite. L’intervento diretto dello Stato è ipotizzabile solo nel caso in cui i corpi intermedi non fossero in grado di rispondere e comunque in via sussidiaria e temporanea.
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L’idea di società civile che si evince dalla Dottrina sociale della Chiesa non poggia su quella che efficacemente il prof. Donati ha definito la “soluzione hobbesiana” o sulla dialettica hegeliana “servo-padrone”, ossia sul fatto che la vita sociale sia irrimediabilmente condannata alla prevaricazione di una parte più forte sull’altra più debole, sicché dovremmo rassegnarci ad una presenza invasiva dello Stato che tutto regolamenta e disciplina. Secondo la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa, la società civile non rappresenta lo strumento di legittimazione del potere politico, bensì la linea di confine e l’elemento critico che dall’esterno lo controlla e ne impedisce la tracimazione, fagocitando il pluralismo delle formazioni sociali, ossia, quella rete di corpi intermedi i cui membri scelgono di essere liberi e responsabili; realtà sociali, dunque, che svolgono l’ineludibile funzione di tenere a debita distanza, entro i propri argini, il potere politico. È questo il senso della sussidiarietà orizzontale sul quale invitiamo i politici ad elaborare coerenti politiche di welfare.
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Da molte parti ormai si avverte il bisogno di una rivoluzione nel welfare, affinché i poveri possano essere sempre più una risorsa, considerati come potenziali creatori di benessere ed aiutati nel loro tentativo di diventare attivi operatori economici. È necessario ripensare l’intera politica dell’assistenza, favorendo la creazione di strumenti che stimolino i poveri a risparmiare, investire e produrre, e che accompagnino gli stessi fino al termine della vita lavorativa, assicurando una dignitosa e, per quanto possibile, serena terza età. Si rileva il bisogno di un’autentica rivoluzione nelle politiche dell’assistenza, a partire dall’istituzione di fondi per nuove iniziative imprenditoriali, meglio se piccole all’inizio, ma che possano diventare anche grandi, i cui soggetti siano anche i lavoratori, desiderosi di migliorare le proprie condizioni, partecipando in modo autorevole ed inedito al processo di sviluppo del Paese; accesso al credito agevolato, legalmente riconosciuto e a bassi costi, al mondo della piccola impresa, ed infine l’impegno, da parte delle famiglie, delle scuole, dei sindacati e dei mezzi di comunicazione di massa, nel diffondere l’etica dell’imprenditorialità, della responsabilità, della creatività. Questa potrebbe essere la strada verso ciò che Luigi Sturzo chiamava il “capitalismo popolare” e che Röpke, tra gli altri, definì “economia sociale di mercato”. Il capitalismo popolare di matrice sturziana e l’economia sociale di mercato di Röpke sono caratterizzati dall’accumulazione decentrata e diffusa del capitale, dal ruolo delle organizzazioni sindacali impegnate affinché gli imprenditori perseguano il reinvestimento produttivo dei loro utili e dalla lotta ai monopoli, favorendo la crescita della concorrenza all’interno di un chiaro quadro normativo.
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Siamo perfettamente consapevoli delle difficoltà e dei rischi che si celano dietro l’esigenza di rivedere la filosofia stessa delle politiche di welfare. Ad ogni modo, una società civile al passo con i tempi e coerente con la lezione politico-istituzionale liberale e “popolare” (intendendo per liberale la lezione “ordoliberale” e per “popolare” la lezione sturziana), una società civile che pretenda di essere percepita come moderna e il cui DNA sia rappresentato dal rispetto per la dignità della persona umana, dalla libertà e dal senso di responsabilità, non può trincerarsi dietro il conformistico conservatorismo sociale e la sicurezza di ricette già sperimentate.