Dobbiamo definitivamente ammettere che, al di là delle buone intenzioni, le istituzioni sono in gran parte l’esito inintenzionale delle azioni umane volontarie: “non tutte le ciambelle escono con il buco” (direbbe mia nonna). Dunque, “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno” e a leggere e rileggere questo articolo ci si accorge che la nostra Repubblica, a differenza della stragrande maggioranza delle Repubbliche del mondo, non sarebbe fondata su un principio, un riferimento morale che rappresenti una sorta di “linea del Piave” oltrepassata la quale gli italiani si sentirebbero in dovere di mobilitarsi per difendere la propria storia, la propria identità, il proprio futuro.
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La Repubblica italiana non è fondata sulla libertà, come ad esempio la Costituzione americana, o sulla fratellanza, l’uguaglianza, la giustizia, il perseguimento della felicità; no, è fondata sul lavoro. Ora, tutto può essere il lavoro, tranne che un principio. Esso è una condizione dell’esistenza umana, una possibilità, per alcuni come il sottoscritto una benedizione, per tanti altri che lavorano in miniera forse è una maledizione. Sotto il profilo cristiano il lavoro è “una” delle tante dimensioni della vita che sono date all’uomo per realizzare l’umano che è in lui (i giorni lavorativi sono funzionali alla celebrazione del “Sabbat”, giorno in cui si “cessa di lavorare”); ma non è la sola.
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Una logica da quattro soldi ci porterebbe a dire che chi non vive quella dimensione non sarebbe parte della res publica, o che non farebbero parte della civitas quegli ampi settori sociali che per ragioni politiche, economiche e culturali sono ai margini del mercato del lavoro. Volendo essere precisi, l’articolo 1 della Costituzione ci dice che viviamo in una Repubblica democratica fondata sull’eventualità che domanda ed offerta di lavoro si incontrino! Inoltre, se il lavoro fosse un diritto fondativo della Repubblica, esso andrebbe massimamente garantito e andrebbero massimamente sanzionati coloro che lo disattendono. Dunque, chi dovrebbe garantire questo diritto e sanzionare i fuorilegge se non il Sovrano? E a chi appartiene la sovranità in Italia? Al popolo! Almeno così recita il secondo comma di questo articolo. Ma il popolo di per sé è un’entità astratta, a meno che non lo si voglia reificare in chissà quale grande Moloch, nel Leviatano di Hobbes, ovvero in qualche partito politico – a vocazione maggioritaria –, specialmente oggi che il partito di governo, quello del “Popolo”, non è più condizionato da “spine nel fianco” democratiche imposte dalle coalizioni. È questo il seme statalista della Costituzione italiana, un seme d’illegalità e di illiberalità denunciato da Luigi Sturzo durante gli anni ’50, in aperta polemica con Fanfani, Mattei e la sinistra DC.
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È proprio il numero eccessivo di dichiarazioni a carattere programmatico a costituire uno degli aspetti più problematici della nostra Costituzione. Scrive Pietro Virga: “non si comprende per quale ragione il costituente, in base ad una sua propria concezione politica … debba impegnare… l’opera dei futuri governi e dei futuri parlamenti”. Il noto giurista avverte che in una simile struttura riecheggia la concezione della “Dichiarazione del popolo lavoratore e sfruttato” (votata dal V Cons. Naz. Dei Soviet il 10 luglio 1918) e del Titolo I della Cost. russa del 11 maggio 1925, secondo cui i diritti di libertà proclamati dagli Stati borghesi sono vere e proprie chimere, mentre l’autentica libertà sarebbe garantita soltanto attraverso l’intervento dello Stato. Paradossalmente, tutte le dichiarazioni programmatiche della Cost. russa vennero abrogate nel 1936 per intervento diretto di Stalin.
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A sessant’anni dalla nascita della Costituzione italiana, crediamo che il problema della nostra Carta fondamentale risieda nell’interpretazione di concetti chiave quali “stato”, “mercato”, “impresa”, “concorrenza”. L’attuale formulazione dell’articolo 1 della Costituzione, fortemente voluta da Fanfani, è figlia del loro fraintendimento, così come li aveva rappresentati nell’opera giovanile Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo (1934).
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Un metodo più corretto, coerente con la rivoluzione liberale dell’età moderna, consisterebbe nello svolgere un’analisi del sistema economico: il capitalismo, facendo riferimento ad un sistema politico: la democrazia, e prendendo in considerazione il vincolo che lega tale sistema economico e politico ad una cultura: il pluralismo. L’astrazione con la quale l’allora giovane Fanfani analizzava lo spirito del capitalismo purtroppo ha fatto scuola, divenendo patrimonio comune del cosiddetto “dossettismo” e più in generale di un certo cattolicesimo di sinistra. A questo punto mi chiedo perché mai dovremmo considerare la Costituzione italiana una sorta di sacramento intangibile in onore del quale celebrare “indecifrabili” liturgie laiche. Le costituzioni sono realtà contingenti scritte da uomini per altri uomini e si differenziano dalla Legge divina (costans et perpetua) in quanto variabili e contingenti. Tutti sanno che la nostra è una Costituzione nata in un determinato momento storico, come risultato di un compromesso tra la tradizione cattolica, liberale e comunista. Caduto il comunismo, è forse un reato pensare di modificare quella parte della Costituzione dove traspare chiaramente un’ideologia drammaticamente e orrendamente fallita ovunque?
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