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Sabato 9 Aprile, i lavoratori precari sono scesi in piazza per manifestare il proprio disagio, reclamando attenzione da parte del Governo e degli organi di informazione del nostro Paese. Per interpretare correttamente il disagio avvertito da molti
rnlavoratori, dobbiamo operare una piccola riflessione sul valore filosofico del tempo.
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Le ragioni che hanno spinto molti cittadini ad aderire all’iniziativa sono facilmente intuibili e possono essere sinteticamente riassunte.
L’inizio dell’attività lavorativa segna l’avvento di una nuova età, rappresentando- proprio nel senso di mettere in scena, di rendere pubblicamente visibile- uno scarto esistenziale paragonabile, per importanza e valore, a quello che separa l’infanzia dalla adolescenza. Tuttavia, le moderne forme di flessibilità hanno reso sempre più fluido e sfocato il confine tra due età della vita un tempo nettamente e definitivamente separate. Esattamente come il divorzio, che implica, per i coniugi, la possibilità di ritornare ad uno stato civile antecedente al matrimonio, il precariato implica, per i lavoratori, la possibilità di tornare ad una condizione sociale ed esistenziale antecedente al contratto di impiego. Questa infinita reversibilità degli status personali potrebbe rappresentare, in sé considerata, una opportunità di cui godere: oggi possiamo violare, con relativa facilità, tutta una serie di legami che, un tempo, erano definitivi, duraturi e, quindi, significativi, in tal senso, noi saremmo più liberi dei nostri predecessori. Eppure, i precari non interpretano la propria condizione come una conquista da difendere, ma vedono in essa una condanna da scontare.

Io credo che se vogliamo provare ad interpretare correttamente il disagio avvertito da molti lavoratori, dobbiamo operare una piccola riflessione sul valore filosofico del tempo. In perfetta consonanza con la più antica tradizione orientale, la cultura greca pensava al tempo come ad un circolo; d’altronde, la ciclicità rappresentava un elemento preponderante all’interno della natura. A prescindere dal fatto che gli uomini indirizzassero il proprio sguardo critico verso l’esterno (osservando il movimento degli astri nel cielo) o rivolgessero la propria attenzione al proprio stesso corpo (ponderando, ad esempio, inspirazione ed espirazione) il circolo sembrava essere il più nitido emblema della temporalità.
Sotto questo punto di vista, la tradizione ebraico-cristiana ha rappresentato un elemento di forte e netta rottura, imponendo una concezione lineare della storia a scapito della visione ciclica. I primi filosofi potevano ben affermare che il cosmo non era opera degli dèi, che esso era sempre esistito ed era destinato a durare in eterno; la Bibbia, al contrario, ci ha insegnato che il mondo è stato creato e che ci sarà una fine dei tempi. In tal modo, la tradizione ebraico-cristiana ha donato al mondo un tempo finalmente ricco di “senso”, ovvero, un tempo che possiede una specifica “direzione” (direzione che non può essere invece rintracciata all’interno del ciclo, dato che esso non prevede, propriamente, una fine e dunque, non possiede alcuna finalità).
Per questo motivo, il tempo dei fedeli non può essere eterno ritorno, ma deve costruirsi come una strada, una linea retta, un cammino di redenzione e di salvezza.
Ora, se è vero che il tempo escatologico dei credenti conosce una dimensione ed un sapore del tutto assente nella mitologia pagana, è anche vero che la società contemporanea, condannando l’otium come il peggiore ed il più temibile dei vizi ed esaltando oltre ogni misura le capacità progettuali del singolo individuo, ha finito per interpretare il lavoro come se fosse l’unica e sola dimensione antropologica costitutiva: l’uomo di oggi esiste ed ha un posto nel mondo solo in quanto lavoratore,
quando il ciclo lavorativo giunge al suo termine, il pensionato entra in depressione; quando il tempo del lavoro tarda ad arrivare, i giovani sbaragliano, si abbandonano ad una deriva nichilistica difficile da arginare.

Di certo, noi cattolici abbiamo il compito di ribadire che la professione non può assorbire ogni dimensione della persona umana. Ciò a dire, noi dovremmo naturalmente osteggiare e combattere tutte quelle forme di alienazione che impediscono alla persona di trovare il giusto spazio per la preghiera, per l’incontro con Dio, per la riflessione (non è forse l’affannoso prassismo che Cristo rimprovera a Marta?); noi dovremmo testimoniare che il lavoro è un valore secondario e strumentale, che non può, per nessun motivo, assurgere a finalità primaria, poiché esso rappresenta, sempre e comunque, un mezzo; al tempo stesso, ritengo che non possiamo non condannare tutte quelle forme di ignobile sfruttamento che impediscono a chi si trova sulle soglie di una vita finalmente matura e responsabile di costruire, a partire da una specifica scelta professionale, una famiglia, una casa, un futuro.

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