Gli anglofoni ricorrono, con metodo scientifico, ad una sigla per descrivere qualsiasi cosa: WASP, NIMBY, WAGS, VIP e così avanti. Ce n’è una di recente conio sulla quale intendiamo soffermarci oggi: NEET, che ha in sé l’eco militaresca di un no russo, e insieme suggerisce la vastità di una rete di larvali replicanti. Parliamo dell’esercito dei Not in Education, Employment or Training, giovani nullafacenti che l’italiano rende con “bamboccioni”, parola grassa e rotonda che ben si accompagna a “mammoni”, termine che piace molto all’estero quando ci devono descrivere. Quando lo fanno, di solito non è per parlarne bene.

L’Istat ci dice che sono due milioni i giovani tra i 15 e i 25 anni che non studiano, non lavorano né si formano: che, cioè, non hanno scovato neanche un co.co.pro. sottopagato, ma rimangono a casa attaccati alle gonne della mamma, non si sa se tutto sommato appagati, finché dura, o depressi, quando non riescono a dare un senso al diploma che hanno appeso in cameretta. Ché infatti il numero dei diplomati italiani (46%, fino ai 64 anni) è superiore alla media europea, ed è in crescita del 2,1% nel 2009 rispetto al 2004, così come quello dei laureati, complice anche la laurea breve, immaginiamo (+2,8%, addirittura +3,7% tra le ragazze). Ciononostante è molto alta la percentuale di coloro che abbandonano prematuramente la scuola: il 19,2% non raggiunge il diploma superiore, dato di più di quattro punti superiore alla soglia fissata dalla strategia di Lisbona. Quest’esito, a quanto pare, è figlio della scarsa mobilità sociale e probabilmente anche di una mentalità piuttosto diffusa per cui la scuola non serve: il 36,5% di chi va male a scuola viene da famiglie operaie, il 42,5% è figlio di lavoratori autonomi.

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Tornando ai NEET: il 29,5% dei 15-24enni è disoccupato, quasi uno su tre, un dato che non ha quasi eguali in Europa, salvo il caso eccezionale della Spagna che, a dicembre 2009, registrava un prodigioso 42,9%, più del doppio della media. Sommando questo ad altri episodi, come il respingimento dei clandestini alle frontiere, possiamo legittimamente domandarci perché continuano a indicarci la Spagna quale modello. Ma è un altro discorso.
Ulteriori simili considerazioni si potrebbero fare a proposito dell’occupazione femminile, ma forse è meglio non infierire. Rimane da capire se la colpa sia delle istituzioni che non sanno valorizzare le risorse del Paese, o degli stessi giovani, che mancano dell’intraprendenza dei loro coetanei stranieri. Probabilmente l’uno e l’altro insieme, in un circolo perverso di disillusione: non ci sono opportunità per cui i giovani non le colgono, gli ammortizzatori sociali tutto sommato tengono anche grazie ad una salda tradizione di solidarietà sociale (leggi: famiglia, clientele, illegalità). La corsa al pezzo di carta impoverisce il mercato di lavoratori manuali e la schiera dei disoccupati cresce, atteso che neanche la ricerca gode di adeguata attenzione da parte della politica. Che anzi è pronta a nuovi tagli su scuola ed Università, invitando così alla fuga i nostri ragazzi migliori.
Anche chi lavora, tuttavia, non se la passa granché bene: se l’Italia eroga di media gli stipendi più bassi dell’Europa a Quindici, i giovani sono i più penalizzati. L’Osce ci informa che i laureati italiani tra i 25 e i 34 anni percepiscono l’80% della retribuzione media tra tutti i laureati: anche all’estero i giovani prendono meno, il 90%, ma da noi va sempre un po’ peggio. Infatti un ricercatore neoassunto riceve circa 12.500 euro, in Francia 30.500 e in Germania 24.000; la situazione migliora appena nel medio periodo (quindici anni di assunzione), dove l’italiano prende 49.000, il francese 73.000 e il tedesco 77.000, segno che l’unico modo per migliorare la propria condizione in Italia è invecchiare. Deve essere per questo che i giovani aspettano pazientemente a casa che arrivi il momento.
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