La fecondità italiana dopo il minimo storico toccato nel 1995 è cresciuta lentamente ma in modo pressoché continuo, fino all’inizio della crisi economica. Dopo aver toccato il valore di 1,42 figli per donna nel 2008 non è più aumentata ed anzi è leggermente arretrata a 1,4. Una dinamica del tutto analoga ha avuto l’occupazione femminile. Partendo da valori molto bassi nel quadro europeo, è stata in continua crescita nel decennio precedente la recessione per poi frenare bruscamente negli ultimi anni.

Il legame tra fecondità e lavoro femminile è oramai ampiamente documentato. La presenza di un doppio stipendio, o di uno e mezzo, in famiglia consente più facilmente di proteggersi dai rischi di impoverimento con la nascita di un figlio e di poter quindi fare la scelta di avere un bambino un più. Come tutte le indagini dimostrano, il numero desiderato di figli è superiore ai due. Questo significa che sono più le coppie che si fermano al figlio unico pur desiderandone un altro, che quelle che vanno oltre il secondo. È inoltre anche vero che siamo uno dei paesi con maggior rischio di povertà infantile. Inoltre negli ultimi anni, secondo i dati Istat, la deprivazione economica è aumentata soprattutto per le famiglie con figli.
Proprio per i bassi livelli di fecondità e le difficoltà del lavoro, ancor più per i giovani e le giovani coppie, che rischiano di accentuare la propensione allo scoraggiamento e alla rinuncia, è importante reagire dando segnali positivi. Prendiamo l’esempio degli asili nido. Sono cruciali perché la decisione sul continuare a lavorare dopo l’arrivo di un figlio dipende dalla capacità di organizzare tempi di vita lavorativa con quelli della vita familiare. Se mancano adeguati servizi per l’infanzia il carico degli impegni sui vari fronti diventa ingestibile e porta a dover rinunciare a qualcosa. Non esiste però solo un problema di copertura di asili nido sul territorio, contano molto anche tempi e costi. Se lo stipendio del lavoro femminile è basso e discontinuo, accade che si sia indotti a scegliere se rinviare la scelta di avere un figlio o lasciare l’occupazione e accudire a tempo pieno i figli piuttosto che affrontare la spesa del nido.
Questo aspetto è emerso con forte evidenza dai risultati dell’inchiesta “Madre-non Madre”, presentati recentemente a Milano dalle sociologhe Marina Piazza e Anna Ponzellini, e dall’economista Anna Soru, assieme al gruppo Maternità&Paternità. A partire dai dati raccolti, le studiose calcolano un costo di 3000 euro medi l’anno per i servizi all’infanzia, che può arrivare anche a valori doppi per le coppie con due redditi. La ricerca, basata su quasi tremila questionari compilati online tra fine 2011 ed inizio 2012, conferma la difficoltà di molte famiglie a far fronte a tale spesa. Considerando le attuali difficoltà finanziarie delle amministrazioni locali, il gruppo Maternità&Paternità ha avanzato una proposta a costo zero che consiste in una miglior ripartizione della spesa pubblica per i servizi educativi. In particolare l’idea è di ridurre l’alto costo attuale dei nidi da compensare facendo pagare qualcosa al momento dell’iscrizione al liceo o prevedendo un contributo per i libri nelle scuole dell’obbligo per chi ha reddito elevato. Anche le famiglie non avrebbero costi aggiuntivi perché quello che si pagherebbe di più per i servizi educativi quando il figlio è adolescente non sarebbe di più di quanto si risparmia all’inizio per il nido. C’è inoltre il fatto che i redditi tendono a salire e che quindi per i genitori un dato costo è più facilmente affrontabile in età più maura che ad inizio della vita di coppia.
Se il sistema funziona bene a regime, c’è però il problema che per partire bisogna da subito far pagare chi si iscrive oggi al liceo senza che abbia beneficiato del minor costo quando era al nido. Si può però pensare a una sua implementazione progressiva, con una compensazione che agisca già a partire dalla materna. Infine, se le politiche a costo zero per le famiglie vanno molto di moda in questo periodo, l’idea di fondo è però sbagliata. Quello che si fa per migliorare benessere delle famiglie e presenza femminile nel mercato del lavoro non va inteso come un costo, ma come un investimento perché rende molto di più nel tempo alla collettività rispetto a quanto inizialmente si spende. Va quindi messo tutto ciò che serve. Rassegnarsi al costo zero significa invece accettare che non si fa quello che serve, ma quello che si può.
Proposte di questo tipo hanno, però, quantomeno il pregio di non prevedere alibi. Non comportano un aggravio di spesa e quindi dipendono semplicemente dalla volontà politica. Un buon test quindi per vedere se questa volontà è forte o timida. E questo è indubbiamente per il paese il momento delle volontà forti, a qualunque livello si operi.

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