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Appare del tutto errato il punto di vista dal quale la stampa e le televisioni stanno presentando al pubblico la vicenda Fiat, quasi che si trattasse di un ennesimo episodio di una “romantica” lotta fra il capitale e il lavoro. Chi guarda alle cose da questo punto di vista non si è reso ancora conto che la globalizzazione impone l’apertura dei mercati europei ed americani alle economie dei paesi emergenti. E tale apertura è indispensabile non solo ai paesi più arretrati, per poter vendere agli occidentali le loro merci ad un buon prezzo, ma anche alle economie più avanzate, per poter trovare chi è ancora disposto ad acquistare i prodotti di cui il sazio consumatore occidentale non ha più bisogno (ed anche alla finanza internazionale, per poter trovare affari che fruttino tassi a due cifre, a remunerazione dei capitali investiti).

Da questo punto di vista, la contrapposizione fra FIOM e FIAT è tanto aspra, quanto scontata in partenza nei suoi esiti, almeno fin tanto che i tassi di produttività degli stabilimenti polacchi e brasiliani saranno notevolmente maggiori di quelli italiani del Lingotto e di Pomigliano d’Arco.
L’imprenditore, infatti, scommette solo sulle operazioni che producono utile, di modo che, nella totale assenza di un disegno strategico di politica industriale nel nostro paese, nessuno può seriamente pensare che FIAT possa rinunziare al suo disegno.

La vicenda, invero, va indagata da una ottica del tutto diversa, poiché essa pone, soprattutto, una questione circa il ruolo del sindacato nella società italiana contemporanea.
La “vulgata” corrente ritiene che nel nostro paese la protezione dei lavoratori e delle associazioni sindacali sia più forte che altrove, in Europa e nel Mondo, tanto che spesso si è sentito ripetere che abbiamo una legislazione (ed una Costituzione), che rappresenta l’ultimo baluardo del comunismo (precisamente del “catto-comunismo”).
In verità, il ruolo che il sindacato ha giocato in Italia, negli ultimi cinquanta anni, non si deve tanto ad una legislazione di favore, ma piuttosto al consenso popolare e al potere, anche politico, che esso ha saputo esercitare.
La normativa sindacale italiana invero è fragile: anzi, per certi versi, quasi inesistente. Sino al 1995, lo statuto dei lavoratori assicurava una rappresentanza obbligatoria dei lavoratori sui luoghi di lavoro a tutte le associazioni che avessero una minima consistenza organizzativa; quel sistema aveva generato una proliferazione indebita di sigle e siglette che il Parlamento si era ben guardato dall’eliminare, lasciando spazio alla fine alla soluzione conseguente al referendum convocato in quell’anno (l’ultimo per il quale si sia raggiunto il quorum). Da allora, l’art. 19 dello “statuto” ammette alla rappresentanza aziendale solo i sindacati firmatari di accordi effettivamente applicati in fabbrica.
Soluzione fragile, ma ritenuta legittima dalla Corte costituzionale in una celebre sentenza, posto che la nostra Costituzione, a differenza di altre, non riconosce il diritto del sindacato alla contrattazione collettiva e dunque la selezione degli interlocutori al tavolo delle trattative può avvenire anche solo in via di fatto, purché si garantiscano comunque ai lavoratori i diritti sindacali minimi (a non essere discriminati, a poter svolgere attività di proselitismo sui luoghi di lavoro, a potersi astenere dal lavoro in caso di designazione al vertice delle associazioni).
Poco male, si era detto, se le sigle confederali sono costrette in qualche modo alla firma, se vogliono continuare a rappresentare i loro iscritti in azienda: questo è il prezzo per eliminare i COBAS; mal che vada, si firmerà un accordo aziendale o uno interconfederale e si potrà così mantenere il diritto a designare i membri della RSA (o a partecipare alle elezioni per le RSU).
Con il referendum del 1995 veniva meno, dunque, la garanzia di una rappresentanza aziendale obbligatoria per legge, ma la modifica fu sottovalutata dai più, proprio perché il sistema andava bene per tutte le imprese che fossero iscritte alla Confindustria.
Ci voleva, dunque, un manager estraneo a tutti i riti italici per buttare tutto a carte quarantotto, portando la FIAT fuori da Confindustria e mettendo la CGIL di fronte ad un bivio storico.
Già ci aveva provato Airfrance a scompigliare le carte, ma aveva dovuto ritirarsi in buon ordine a fronte delle generosissime proposte che in campagna elettorale erano giunte dal centrodestra. Eppure l’offerta di Spinetta era irresistibile: l’Alitalia non sarebbe fallita; il Ministero del Tesoro si sarebbe visti ripagare i debiti che la compagnia aveva contratto con esso e con i tanti investitori; una buona parte dei lavoratori sarebbero stati assorbiti.
Si è preferita però la strada di una nazionalizzazione della società, solo pudicamente mascherata da una cordata di imprenditori, proprio mentre il trasporto su rotaia era pronto ad esplodere con l’alta velocità, e mentre i voli low-cost rubano clienti a man bassa alle compagnie di alta gamma.
Non ci vuol molto per capire che il salvataggio di Alitalia alla fine significherà un ridimensionamento enorme di una compagnia, che di italiano conserverà solo il nome.
Ci si deve chiedere allora che modello abbia in mente FIOM quando si oppone testardamente al modello di fabbrica che Marchionne ha in mente, senza esplicitare nessuna diversa proposta. Spesso nel dibattito televisivo i vertici di FIOM invocano l’intervento pubblico, ma, dal momento che vi è un azionariato saldo e che l’impresa è in utile, non pare davvero plausibile che FIAT possa essere nazionalizzata, così come è avvenuto per Alitalia, con costi enormi addossati alle già fragili casse dell’erario nazionale e con una violazione palese di tutte le norme che disciplinano la concorrenza.

È certamente utile che in televisione si torni a parlare del lavoro e della condizione operaia, ma questo non basta: ci si deve interrogare, piuttosto, sul ruolo che il sindacato intende giocare nella joint venture Fiat – Chrysler e sulla strategia che ha in mente per davvero la FIOM, quando ha manifestato sin dall’inizio la sua indisponibilità al negoziato e la sua volontà di rompere l’unità del fronte sindacale, in una situazione nella quale oramai anche l’UGL comincia ad avere percentuali di rappresentanza a “due cifre”.
Invece di andare su tutti i giornali e le televisioni a lamentare una violazione di diritti fondamentali (ma quali bene non si sa, poiché sino a qui l’elenco non è mai stato neppure tentato), perché FIOM non fa le sue proposte ? Quando i vertici di FIOM indicano nella riapertura delle trattative il loro obiettivo finale, dicono ancora una volta troppo poco, poiché nessuno ha capito che cosa si vorrà proporre a quel tavolo, una volta che si siano riaperti i giochi. O non si vuole altro che una bella nazionalizzazione della Fiat, consegnandola così proprio a quella maggioranza parlamentare alla quale FIOM dice di volersi opporre?
E in ultimo: perché FIOM ha paura dell’accordo, se questo è – per davvero – illegittimo? Non sarebbe la prima volta che il sindacato firma un accordo e poi ne contesta (spesso vittoriosamente) una parte dei contenuti davanti alla magistratura!
È evidente, allora, come il vero nodo sia il ruolo che il sindacato vuole svolgere sulla scena del mondo produttivo italiano. La gran parte del progresso degli anni ’80 e ’90 è frutto di scelte coraggiose delle organizzazioni confederali, che mostravano così di essere assai più avanti degli uomini del Governo o dell’opposizione del tempo: penso all’accordo sulla “scala mobile” del 1984, o al “protocollo Ciampi” del 1993, o alla riforma delle pensioni del 1995. In quelle occasioni il sindacato si è fatto strumento di grande innovazione, assicurando consenso popolare a riforme che altrimenti la politica non avrebbe saputo affrontare da sola, prigioniera delle mille interdizioni del nostro sistema di rappresentanza.
C’è da chiedersi cosa sia rimasto di quel sindacato, che seppe abbandonare la protesta (peraltro legittima) degli anni ’70, per imboccare la via della concertazione delle riforme, la strada della partecipazione delle forze popolari al governo dell’economia e delle istituzioni, salvando il potere di acquisto delle retribuzioni e delle pensioni.
Anche ora ci sarebbe spazio per ridefinire al tavolo della contrattazione aziendale i rapporti fra management e lavoratori, incidendo sulle prospettive di carriera, sulla assistenza sanitaria, sulla formazione, sui percorsi di carriera, sulla precarietà, sulla governance delle imprese, sugli stipendi dei supermanager: ma dov’è il sindacato pronto a discutere e ad assicurare il consenso dei lavoratori ?
Quel sindacato sembra essere scomparso: ha ripiegato su obiettivi minimali; si è spaccato, senza saper trovare una linea comune coraggiosa, che sappia opporre alle inevitabili logiche del mercato la capacità di aggregare gli interessi comuni dei lavoratori e di escogitare soluzioni condivise.
La questione FIAT, insomma, è una questione di uomini e non solo di idee e sarebbe bene se invece di ripetere stancamente slogan oramai vuoti, si desse vita ad una nuova stagione progettuale (magari abbandonando le sirene di una politica, sempre più incapace di mettersi a capo della evoluzione sociale).

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