Le modifiche al disegno di legge di conversione del decreto legge 112/2008, che costituisce di fatto la manovra finanziaria del governo per il 2009, sembrano aver fugato le preoccupazioni relative ad alcune norme che avrebbero inciso sulla tenuta del nostro sistema di welfare.

Oltre alla norma sul lavoro a termine, che ha avuto vasta eco sulla stampa nazionale, preoccupava, in particolare, la disposizione volta a limitare l’erogazione degli assegni sociali ai soli soggetti “che abbiano soggiornato legalmente e lavorato legalmente con un reddito almeno pari all’importo dell’assegno sociale, in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio nazionale”. Ora l’emendamento lascia soltanto la condizione di aver soggiornato “per almeno 10 anni”.
 
Quale che fosse l’obiettivo del Governo, l’effetto di una tale norma sembrava quello di limitare grandemente, e forse di eliminare del tutto dal nostro sistema di tutele, un istituto che del nostro paese è di fatto l’unico strumento di una certa importanza per la lotta alla povertà.
 
L’assegno sociale (il cui importo è pari a 395,59 euro al mese, per 13 mensilità) è una prestazione assistenziale corrisposta ai cittadini che abbiano compiuto il sessantacinquesimo anno di età ed abbiano redditi personali inferiori all’importo dell’assegno (in presenza di redditi l’importo viene ridotto fino a raggiungere l’importo medesimo). Tale prestazione (che nel 2006 ha interessato circa 775 mila persone) si basa su presupposti del tutto diverso rispetto alle altre prestazioni pensionistiche: il reddito scarso o nullo e l’impossibilità di procurarsi reddito tramite il lavoro a causa dell’età avanzata. È del tutto evidente quindi che in tale contesto l’aver versato contributi nel corso della propria vita attiva è del tutto ininfluente.
 
Che ci sia bisogno di una politica di questo tipo lo dicono i dati pubblicati dall’Istat: in Italia la povertà relativa interessa il l’11,1% delle famiglie ed è più diffusa in quelle con persone anziane (riguarda oltre il 12,5% delle famiglie composte da persone sole con più di 65 anni o da coppie con capofamiglia ultra 64enne).
 
Ora, ciò che rimane della norma sembra volto ad evitare il fenomeno dell’immigrazione al solo scopo di fruire del sistema di welfare. Tanti, si dice, sarebbero gli immigrati (soprattutto dei nuovi paesi membri dell’Unione Europea) che vengono nel nostro paese in età già avanzata con il solo scopo di usufruire del beneficio. Su quanto sia importante tale fenomeno non esistono però cifre certe, dato che l’Inps è al momento in grado di verificare nei propri archivi il luogo di nascita, ma non la cittadinanza.
 
Nel merito, vale però notare che in realtà il nostro sistema ha già dei correttivi. Sin dal 2001 (legge 388, finanziaria del governo Amato), il beneficio in questione, che già si applicava ai soli residenti in Italia, è stato limitato, per quanto riguarda i non cittadini italiani, a coloro che siano in possesso di carta di soggiorno. Quanto al rilascio della carta di soggiorno (o, meglio, il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo), occorre ricordare che esso è vincolato, oltre che al possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno valido, ad un reddito almeno pari all’assegno sociale, ossia tale da rendere impossibile la fruizione di tale prestazione; e ciò vale anche per il ricongiungimento familiare, nel qual caso il reddito deve essere moltiplicato tante volte quanti siano i familiari ricongiunti.
 
Si dirà che tale reddito potrebbe poi venir meno, consentendo dunque all’immigrato, o ai suoi familiari, di approfittare del generoso sistema di welfare italiano pur essendo nel nostro paese da poco tempo; in mancanza di dati certi, crediamo tuttavia che si tratti un allarme esagerato.
 
Ferma restando l’estrema importanza della modifica della norma al Senato, crediamo anche che il sistema sia tale da non richiedere modifiche di grande rilievo e soprattutto che sia opportuno evitare una inutile caccia alle streghe imponendo requisiti draconiani per gli immigrati.
 
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