L’accordo nasce, a tutta evidenza, come risposta alla sfida che Fiat aveva posto all’intero sistema italiano delle relazioni industriali e, in questo senso, vede, forse per la prima volta, Confindustria ammettere che i sindacati sono organizzazioni necessarie alla produttività delle aziende e al governo delle relazioni industriali. Questo dato non va infatti sottaciuto: l’accordo è stato in qualche modo cercato più dagli imprenditori che dalle organizzazioni sindacali, a fronte del pericolo che il “modello Pomigliano” si espandesse anche alle imprese fornitrici di Fiat, con il rischio di innescare una diaspora delle imprese, a danno di Confindustria.
Anche le Organizzazioni sindacali, però, come ogni volta che si realizza un buon accordo, hanno avuto la loro convenienza a ritornare insieme a sottoscrivere unitariamente un accordo: la nuova segreteria della Cgil si è resa conto che la linea delle contrapposizione frontale fra capitale e lavoro può inizialmente pagare in termini di consenso, ma alla lunga finisce per marginalizzare il sindacato ed irrobustire la controparte; Cisl e Uil, da parte loro, hanno toccato con mano che la forza del sindacato è incrementata da una azione comune e, per un altro verso, hanno dovuto constatare quali fossero i rischi delle passate politiche di collateralismo politico.
L’accordo in sé, al di là delle considerazioni ora svolte, è un pezzo importante dello stesso disegno ispiratore della nostra Carta costituzionale che viene a concretarsi, seppure in forme imperfette, a distanza di oltre sessanta anni dalla sua promulgazione, perché detta finalmente regole democratiche per risolvere i conflitti al tavolo delle trattative.
Sino ad adesso, in caso di conflitto su un testo di un accordo non vi era una regola precisa che governasse l’evolversi della trattativa e che garantisse efficacia all’accordo sottoscritto da una parte sola delle sigle presenti al tavolo: per quanto la cosa possa apparire incredibile, sul punto non si era mai approvata una legge e, quindi, la confusione era massima, sia fra gli studiosi che fra i giudici.
Qualcuno, ed era soprattutto la Cgil, affermava la regola della unanimità, di modo che bastava che una sola sigla non firmasse, perché l’accordo non potesse considerarsi validamente concluso. Era la posizione presa da Fiom a Pomigliano prima e a Torino poi, smentita però dal fatto che quel sindacato, seppure obtorto collo, alla fine aveva dovuto accettare l’idea di un referendum fra i lavoratori.
L’accordo introduce invece ora un sistema più trasparente per cui la maggioranza dei lavoratori può imporre la propria volontà alla minoranza; la regola, che è propria di ogni sistema democratico, è in sé barbara e semplicistica: chi assicura che la minoranza non sia di più lunghe vedute? Chi garantisce contro spinte estremistiche della maggioranza? Non è forse vero che tutte le dittature sono figlie di una maggioranza?
Tuttavia la regola di maggioranza, per quanto grossolana, è la migliore, tanto che su di essa, sin dai tempi di Pericle, si fondano le democrazie. E del resto, la regola dell’unanimismo non è forse il prevalere della minoranza, anche ridottissima, sulla maggioranza?
Non è sbagliato, quindi, dire che l’accordo apre una fase nuova delle relazioni industriali in Italia, nella quale i soggetti collettivi sono chiamati a comportamenti più trasparenti, essendo ora costretti ad assumere in prima persona le decisioni più importanti, senza potersi nascondere dietro il dissenso dei gruppi minori.
Tutti hanno da guadagnare dal nuovo accordo: Cgil, che può finalmente far pesare il proprio ruolo di “sindacato di maggioranza”; Cisl e Uil, che possono dimostrare di avere nei fatti più seguito fra i lavoratori di quanto non appaia dal numero dei loro iscritti; la Confindustria, che ha dinanzi a sé finalmente i rappresentanti della gran parte dei lavoratori.
Certo, l’accordo del 28 giugno non risolve il caso FIAT: ma non era quella la sua intenzione.