Le vittime di questo tipo di sfruttamento provengono soprattutto da due aree: l’Europa orientale la cui incidenza appare ora in decrescita, ma rimane su livelli alti (con romeni, bulgari e polacchi in testa); e l’Africa, in larga misura i territori subsahariani, dal Mali alla Nigeria fino al Corno d’Africa. Si tratta di persone presenti ‘clandestinamente’ in Italia. I neocomunitari dell’Est Europa sottomessi al caporalato agricolo rimangono pur sempre degli ‘invisibili’ posti sotto la stessa indifferenziata condizione di clandestinità e sfruttamento di cui sono vittime i loro compagni di differente provenienza.
La provincia di Foggia è una delle zone in cui questa forma di caporalato si esprime in modo più vessatorio. Durante la stagione estiva, nell’area del foggiano verrebbero impiegati “al nero” non meno di cinquemila stranieri, destinati alla raccolta dei pomodori. Agli aspetti tipici del caporalato, cioè l’insicurezza delle condizioni di lavoro, l’irregolarità e lo sfruttamento economico (si stima che la retribuzione media si aggiri intorno ai 10-15 euro per 15 ore di lavoro al giorno) si aggiunge un ulteriore elemento: la vera e propria riduzione in schiavitù di cui sono vittime queste persone. Ogni contatto verso l’esterno è precluso. Nella generalità dei casi, le persone impiegate nella raccolta sono sottoposte a rigida sorveglianza da parte dei ‘caporali’; vengono frequentemente picchiate o minacciate; allontanarsi o fuggire dai campi oppure dai tuguri in cui si è costretti a dormire espone a seri rischi e a minacce di ritorsioni. In tutto questo, è bene ricordare che quanto ricavato da questa forma di sfruttamento entra regolarmente nel ciclo distributivo dei prodotti agro-alimentari immessi nel mercato italiano ed europeo.
Se la schiavizzazione dei braccianti stranieri rappresenta un salto di qualità e una drammatizzazione del fenomeno del caporalato, quest’ultimo può essere considerato l’epifenomeno di una realtà strutturale quale è, in Italia, il lavoro nero. Il Censis calcola che circa un quarto della popolazione lavorativa italiana – sia del settore pubblico sia del privato – abbia effettuato prestazioni di lavoro in modo irregolare.
Un primo elemento di valutazione, di natura ‘sistemica’ può essere il seguente: un apparato produttivo che richiede e utilizza in ampia misura il lavoro informale/irregolare tende ad attrarre un’immigrazione di tipo irregolare. Tale sistema evita di sostenere i costi della competitività conseguibili attraverso una modernizzazione produttiva; supplisce a questo deficit di modernizzazione mediante un livellamento verso il basso dei salari e delle condizioni di sicurezza; livellamento che viene appunto assicurato, in misura strategica, con il ricorso al lavoro nero.
Il caporalato è un fenomeno non certamente limitato al settore agricolo, né ad alcune aree del Mezzogiorno. Si estende su una parte considerevole del nostro Paese. A Roma è uno strumento essenziale per l’impiego di immigrati irregolari nel settore edile. Gli “smorzi” – ossia i depositi di cemento – che si trovano nei pressi di Tor di Quinto o in Via Palmiro Togliatti – nella periferia est – sono tra i principali crocevia di un fenomeno che avviene spesso alla luce del sole.
Un secondo aspetto da tenere in considerazione riguarda la legislazione italiana sull’immigrazione. In termini legali, l’Italia, come altri Paesi della “fortezza Europa”, è ermeticamente chiusa all’immigrazione proveniente del sud dal mondo, al di fuori di due strumenti d’ingresso: le quote annualmente previste dal decreto flussi e i ricongiungimenti familiari. E’ stato più volte ribadito, da più parti, come questo tipo di impostazione normativa tenda a produrre clandestinità. Un extracomunitario non può, in base alla legge, venire in Italia con l’intento di cercare lavoro, ma deve disporre di un contratto da firmare al momento dell’arrivo nel nostro Paese. I “nuovi schiavi” che arrivano in Italia dalle coste libiche, vi giungono al termine di un pericoloso ed estenuante viaggio che li vede vittime della tratta di esseri umani; si tratta di persone che si trovano evidentemente al di fuori dei parametri richiesti per essere ammessi regolarmente nel mercato del lavoro.
In termini generali, è d’altra parte noto come il meccanismo della ‘chiamata nominativa’ del datore di lavoro nei confronti dello straniero residente all’estero, rappresenti di fatto una mera convenzione normativa che non coincide con la realtà. La stragrande maggioranza dei datori di lavoro che chiedono di assumere un lavoratore straniero attraverso il meccanismo delle quote, fanno riferimento a persone già presenti in Italia, per le quali le quote rappresentano uno strumento di regolarizzazione surrettizia. Questa chance è però preclusa a coloro che lavorano in condizioni di schiavitù nella raccolta dei pomodori. E’ estremamente improbabile che chi riesce a fuggire, sottraendosi a questa forma di caporalato, possa poi trovare un inserimento lavorativo ‘normale’ che permetta una sua successiva regolarizzazione. Peraltro, coloro hanno denunciato le condizioni di sfruttamento precedentemente descritte vengono spesso colpiti da provvedimenti di rimpatrio adottati dalla questura.
Nessuna garanzia è dunque applicata alle vittime di questa forma di moderna schiavitù. Eppure gli strumenti giuridici a riguardo non mancherebbero. L’articolo 18 del testo unico vigente in materia d’immigrazione (d.lgs.286/98) prevede che venga accordato un permesso di soggiorno per protezione sociale alle vittime del trafficking, ossia della tratta di esseri umani: tale permesso può essere rilasciato anche in assenza di denuncia da parte della vittima, tramite l’intervento di organizzazioni umanitarie.
Questa particolare forma di protezione è stata concepita e applicata essenzialmente alle vittime dello sfruttamento della prostituzione, permettendo a volte di conseguire dei risultati importanti. Per contrastare la moderna schiavitù rappresentata dal caporalato bracciantile e’ importante che venga esercitata una pressione e una sensibilizzazione nei confronti delle forze politiche e del legislatore, affinché la forma di tutela umanitaria prevista ex articolo 18 venga estesa, ampliando la ratio della legge o adottando nuovi provvedimenti legislativi.