Spes contra spem! Con questo motto Giorgio La Pira era solito affrontare chi opponeva il crudo realismo della cronaca alla sua capacità di allargare la contemplazione all’orizzonte più vasto della storia. Lui che, seduto sulla sedia del sindaco o su quella del deputato, o scrivendo a Togliatti o alle claustrali a fatica riusciva a stare chiuso in un ruolo determinato, sentendosi sempre spinto oltre una soglia che lo portava al di là degli schemi e delle deleghe, fino a raccogliere, quasi in un unico grande abbraccio epistolare, persone, popoli e storie completamente diverse.
Spes contra spem era, appunto, il suo motto. La capacità ostinata, cioè, di contrapporre la speranza di una doverosa riscossa, di una legittima liberazione dell’umanità ai tanti distinguo di una prudenza che scivola nella pavidità. Così la volontà di garantire il lavoro ai suoi concittadini licenziati dalla Pignone lo “costringeva” a marciare senza indugi contro le perplessità dettate dall’analisi economica dell’amico Fanfani, o la capacità profetica di leggere i segni dei tempi rendeva in lui urgente scrivere al Papa per raccomandare alle commissioni preparatorie del Concilio Vaticanio II di non escludere i rappresentanti musulmani dalla lista degli osservatori invitati all’assise.
Una vocazione di metodo e di contenuto, insomma, un tratto unico di caparbia affermazione della dignità di ogni uomo che attraversa tutto il suo pensiero; da deputato, da sindaco, finanche da professore.
In questi giorni in cui si è celebrato il trentesimo anniversario della sua morte (avvenuta il 5 novembre 1977) la sua lezione è apparsa ancora una volta attuale come non mai. Mentre la comunità fiorentina “riaccoglieva” le sue spoglie nella Chiesa di San Marco, il Paese veniva scosso dall’ennesima brutalità legata all’immigrazione e dalla bestiale assurdità di chi invoca la “giustizia” sommaria delle ronde.
Cosa avrebbe fatto La Pira, cosa avrebbe detto, con chi si sarebbe schierato? In molti ce lo siamo chiesto, quasi invocando un suggerimento, un consiglio da chi, a suo tempo, seppe fare scelte coraggiose e scomode. Ma la questione, forse, è mal posta.
Se l’eredità del Professore ha un senso, infatti, non sta tanto nel chiederci cosa avrebbe fatto lui se ci fosse stato ancora, piuttosto sta nel domandarci cosa compete fare a noi, che ci siamo, partendo dai medesimi presupposti valoriali che guidarono la sua riflessione e la sua azione.
Reimpostare il dibattito su accoglienza e sicurezza, pertanto, facendo tesoro dell’esempio del Sindaco Santo, vuol dire trovare l’onestà di far chiarezza tra i sentimenti facili della rabbia o del pietismo per costruire quell’equilibrio tra forze su cui si regge l’affermazione incondizionata della dignità della persona; prima e oltre il suo essere vittima o carnefice, emigrante o immigrato.
E’ un equilibrio fragile, ma è l’unico su cui possa reggersi qualunque società che abbia la pretesa di considerarsi una civiltà. Lo ha ricordato qualche domenica fa Benedetto XVI individuando con poche, ma incisive espressioni il nocciolo della questione: la complessità della realtà attuale, l’orizzonte valoriale della civiltà, il ministero della politica.
Auspico, inoltre, che le relazioni tra popolazioni migranti e popolazioni locali avvengano nello spirito di quell’alta civiltà morale che è frutto dei valori spirituali e culturali di ogni popolo e Paese. Chi è preposto alla sicurezza e all’accoglienza sappia far uso dei mezzi atti a garantire i diritti e i doveri che sono alla base di ogni vera convivenza e incontro tra i popoli. (Bendetto XVI . Angelus del 4 Novembre 2007).
Il Magistero della Chiesa su questi temi, peraltro, è costante e nulla c’è da aggiungere all’insegnamento dei Padri, dei Dottori e dei Pontefici, compendiato nei documenti del Vaticano II. La «Gaudium et spes» al paragrafo 69 sancisce: “Deus terram cum omnibus quae in ea continentur in usum universorum hominum et populorum destinavit, ita ut bona creata aequa ratione ad omnes affluere debeant, iustitia duce, caritate comite”. In questo essere della terra e dei suoi beni necessariamente e naturalmente destinati a tutti gli uomini ed a tutti i popoli sta la ragione (giusta, equa) dell’accoglienza e della condivisione.
L’incontro tra popolazioni locali e popoli migranti non può mai essere il frutto di una concessione degli uni agli altri, ma è sempre la conseguenza di chi cerca per la propria gente, per la propria famiglia e per sé ciò che, aequa ratione, gli è destinato in virtù della propria dignità di uomo.
In questo scenario nitido, allora, deve ricollocarsi il fenomeno migratorio che, come in altre epoche, caratterizza anche la nostra fase storica. E la chiarezza di questo messaggio deve aiutarci a distinguere il tutto, dal poco di chi, con una gravissima responsabilità individuale, trasforma un diritto in un’occasione di sopruso, di violenza e di illegalità.
Nell’immagine della “giustizia che guida” e della “carità che accompagna”, infine, sono espressi non solo lo stile e il metodo di chi si pone il problema dell’equa redistribuzione dei beni, delle risorse e delle opportunità di vita, ma soprattutto i parametri che devono guidare la coscienza e il comportamento dei singoli e delle Autorità. Nello sforzo costante di praticare e di garantire queste due virtù, infatti, sta il mandato cristiano di coloro che sono chiamati a garantire i diritti e i doveri posti alla base della convivenza e dell’incontro tra popoli. Il contenuto della “sicurezza” è tutto qui. Garantire la sicurezza altro non può voler dire che vigilare sul permanere delle condizioni oggettive, quotidiane in cui una comunità possa vivere secondo il vincolo della solidarietà. Vincolo che la Costituzione italiana definisce “dovere inderogabile” ponendolo a fondamento dei consociati. Se la “sicurezza” perdesse questo connotato di presupposto oggettivo dei rapporti, dei diritti e dei doveri e diventasse rivendicazione dell’una o dell’altra categoria sociale, di un gruppo economico o di una parte politica, se perdesse la sua fisiologica trasparenza per tingersi delle sfumature di una sola delle parti rischierebbe di trasformarsi in uno strumento sbilanciato e limitato, incapace di rimanere sensibile alle preordinate esigenze della giustizia e della carità.
La sicurezza, insomma, deve essere la possibilità e la libertà di godere di ciò che abbiamo, adoperandosi con carità e giustizia per l’affermazione della dignità di ogni persona ed il progresso di ogni popolo. Soltanto salvaguardando questo principio senza cedere alle tentazioni della paura contribuiremo ad affermare la vera Speranza contro le false rivendicazioni delle parti. Contribuiremo a sostituire al bene di alcuni il bene comune.