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In questa campagna elettorale la questione della sicurezza è stata sollevata con maggiore frequenza rispetto a precedenti competizioni elettorali e in modo più trasversale di quanto avvenisse in passato. La valenza in molti casi anche amministrativa della ‘tornata’ del 13 aprile ha contributo ad accrescere questo dato.

Il tema dell’immigrazione è ricorso spesso associato al tema della sicurezza, sulla base di considerazioni strumentali o di preoccupazioni fondate, elementi peraltro non sempre facilmente distinguibili nel corso di una campagna elettorale.
Se è il binomio immigrazione/sicurezza è un tema tradizionalmente presente nell’agenda setting di alcune aree del nord del nostro Paese, se ne è stavolta dibattuto molto anche a Roma, sia per le pregresse funzioni di sindaco dell’attuale candidato premier del centro-sinistra, sia per il fatto che la capitale è divenuta a suo modo un sipario dove appaiono ben visibili le criticità legate alla gestione di una parte dell’immigrazione neocomunitaria (composta a livello nazionale da oltre 600.000 persone su 3 circa milioni e mezzo di immigrati); più specificamente, l’attenzione si è focalizzata soprattutto sul disagio diffuso nell’opinione pubblica nei confronti di una parte dell’immigrazione proveniente dalla Romania e in particolare verso i rom affluiti recentemente da quel Paese.
In uno Stato democratico assicurare la certezza del diritto e il rispetto della legalità è anche una forma di dovere civico a tutela dei soggetti più deboli e vulnerabili; questo aspetto dovrebbe però realizzarsi in modo non disgiunto dalla promozione di una rete di diritti in campo sociale.
Le situazioni di disagio legate agli insediamenti ‘spontanei’ di rom nelle aree urbane del nostro Paese sono l’epifenomeno della carenza di programmazione e dell’assenza di certezze in tema dei diritti e doveri alla base della convivenza civile.
In un contesto di libera circolazione all’interno della UE si è reso improponibile immaginare il ricorso alla chiusura delle frontiere o alle espulsioni come panacea contro l’immigrazione considerata “cattiva” o “scomoda” proveniente da Paesi neocomunitari. In questo modo sono venute al pettine una serie di questioni rispetto alle quali è necessario progettare risposte adeguate: sul piano delle politiche abitative, dei servizi sociali e, di pari passo, sul piano del rispetto delle regole; tenendo conto che i principi e le politiche adottate per i cittadini neocomunitari devono essere gli stessi applicati ai cittadini italiani.
 
Le questioni attinenti all’immigrazione non-comunitaria si presentano in modo differente sul piano legislativo, ma chiamano egualmente in causa la carenza di politiche “forti” di integrazione, orientate verso la realizzazione di un ‘modello italiano’, ancora da costruire e troppo spesso affidato all’improvvisazione. Si pensi all’assenza di una legge organica sul diritto di asilo e alla mancanza di adeguate politiche di sostegno al diritto alla casa e all’assistenza sociale di coloro che pure si vedono teoricamente riconosciuto lo status di rifugiato.
In Italia dibattito sull’opportunità o meno di accettare o respingere l’immigrazione è ormai concluso da almeno un decennio, essendo stata riconosciuta l’irreversibilità del fenomeno, anche se da ciò spesso non sono derivate politiche conseguenti. L’attenzione si è spostata sulla regolamentazione dell’immigrazione, assumendo spesso la figura del clandestino come target negativo. L’immigrazione clandestina, nel dibattito politico, viene frequentemente associata a fenomeni di devianza.
E’ bene evitare fraintendimenti a tale riguardo: capire il funzionamento (o non funzionamento) delle nostre leggi in materia d’immigrazione consente di comprendere meglio chi sono i clandestini; e come alla maggioranza di essi non possa essere associato lo stigma della delinquenza. Clandestini sono in larga misura anche coloro che già risiedono e lavorano – evidentemente al “nero” – nel nostro Paese, che richiedono una forma di riconoscimento e di regolarizzazione attraverso il meccanismo del decreto flussi. Si tratta, per l’anno passato, di un numero molto elevato di quelle 680.000 persone che hanno richiesto di accedere alle 170.000 ‘quote’ previste per i flussi; cifre che peraltro evidenziano la portata assunta dal fenomeno migratorio in Italia e di come la programmazione attuale sia scarsamente ‘tarata’ sui numeri reali di tale fenomeno.
Cadere nella clandestinità – o comunque nel limbo giuridico della non regolarità – è facile anche per i cittadini extracomunitari che entrano in Italia con regolare contratto di lavoro. Le disposizioni contenute nella la legge 189 del 2002 hanno stabilito lo stretto nesso tra diritto al soggiorno in Italia e possesso di un contratto di lavoro, accompagnato da tempi contingentati per trovare una nuova occupazione in caso di perdita di quella precedente; inoltre è stata sancita l’impossibilità di ottenere il rinnovo di un permesso che abbia durata superiore al primo permesso rilasciato (il quale non può superare i due anni neppure nelle tipologie contrattuali a tempo indeterminato). Accanto a ciò, va segnalata, nella prassi burocratica, l’esistenza di aporie interpretative a riguardo delle norme contenute sul testo unico sull’immigrazione – esistono punti di non poco conto applicati in modo differente dalle diverse questure – e i tempi lunghi di rilascio di un permesso – che fanno sì che il pieno godimento della condizione di straniero regolarmente soggiornante si abbia per un periodo molto limitato rispetto all’effettiva durata del soggiorno.
 
L’insieme degli elementi descritti facilitano la clandestinità e determinano una diffusa condizione di precarietà tra gli stranieri regolarmente soggiornanti. Un analogo livello di precarietà e di mancanza di tutele sussiste sotto alcuni aspetti anche nei rapporti di lavoro: a partire dal 2001 si è determinato un regresso normativo che impedisce al titolare di permesso di soggiorno l’accesso alle tutele e alle indennità previste per le vittime di infortuni sul lavoro (garanzie per le quali è richiesto il possesso dell’ex carta di soggiorno, ora denominata permesso di soggiorno CE di lungo periodo, che viene rilasciato dopo cinque anni di permanenza in Italia).
 

rnIn opposizione alla condizione di precarietà appena descritta occorre saper proporre agli immigrati una condizione di sicurezza sul piano dei diritti sociali e lavorativi; la quale ha come corollario l’assunzione di responsabilità nei confronti della società che essi condividono con i cittadini italiani. Maggiore equità e regole più trasparenti nei rapporti tra immigrati ed amministrazione pubblica sono elementi non soltanto a vantaggio del welfare degli immigrati; possono concorrere a definire un quadro nel quale l’immigrazione sia percepita in modo crescente come risorsa e non come elemento ricorrente nel dibattito sulla sicurezza in Italia.

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