perché, comunque, troppo scoperto appare un meccanismo di dislocazione pressoché integrale sul piano della lotta ai clandestini, agli irregolari, ai nomadi, dei problemi di libertà, sicurezza e giustizia del vivere civile in Italia; e quel meccanismo genera ulteriori, intollerabili violenze (le spedizioni punitive contro i campi nomadi stanno lì, vergognosamente, a dimostrarlo).
Diremo subito come la pensiamo: innegabile è la realtà dei problemi sociali posti dall’emarginazione connessa all’immigrazione, al nomadismo, al trascinarsi di singoli e gruppi negli anfratti delle nostre città (non solo nelle periferie, ma anche nei centri), «vite di scarto» della globalizzazione; pure innegabile, e ben documentata dagli studi sociologici più attenti, è la percezione dell’insicurezza, nelle forme della paura personale del crimine e della preoccupazione sociale per la criminalità (che talvolta superficialmente sono ricondotte ad ansie soggettive, alimentate ad arte dai media e dalla propaganda politica). Ma proprio a fronte di questi enormi − e globali − problemi sociali, l’idea di introdurre un’incriminazione del clandestino in quanto tale è intendimento sconclusionato, che si tradurrebbe in una scelta sbagliata per almeno un triplice ordine di ragioni: ragioni “interne” al sistema delle norme in materia di immigrazione; ragioni di effettività; ragioni “di principio”.
Quanto alle prime, esse sono riassumibili, con qualche inevitabile semplificazione, nel dato di fatto che il nostro ordinamento già prevede una coorte di reati connessi all’essere clandestini e di norma puniti con la reclusione: ad esempio, è punito lo straniero che sia stato espulso e tuttavia rientri nel territorio dello Stato; lo straniero che rientri in Italia pur essendo già stato denunciato per essere, già altra volta, rientrato abusivamente dopo una precedente espulsione; lo straniero che, entrato clandestinamente in Italia, senza giustificato motivo vi si trattenga in violazione dell’ordine di lasciare il territorio impartito dal questore; lo straniero che sia entrato in Italia e debba ritenersi abitualmente dedito a traffici delittuosi, o sia sospetto di vivere di proventi di attività delittuosa, o debba ritenersi dedito a specifici reati indicati dalla legge (in materia di sanità, sicurezza, tranquillità pubblica, tutela dei minori), o sia indiziato di appartenere ad organizzazioni di tipo mafioso. Come si vede, si tratta di norme che criminalizzano a tappeto pressoché tutte le condotte variamente connesse allo stato di clandestinità, tranne la clandestinità in quanto tale (che è punibile se vi è la disobbedienza all’ordine di espulsione). E però, nonostante le norme in questione siano state ripetutamente aggiornate (da ultimo nel 2004), il numero di clandestini non si è affatto ridotto, ed anzi il numero dei non ottemperanti ai provvedimenti di espulsione/rimpatrio sembra progressivamente aumentato (da 45.000 a quasi 79.000 nel 2006: dati Caritas). Il diritto penale si è già rivelato, dunque, scarsamente idoneo come mezzo di gestione del problema sociale: se questo apparato d’incriminazioni non sembra approntare adeguato argine al fenomeno contro cui si erige, le cause devono essere ricercate altrove.
Quanto alle ragioni di “effettività”, va detto che se le norme già vigenti in materia sono alquanto ineffettive, a maggior ragione l’ineffettività sarà la sorte d’una disposizione che miri a completarne il quadro sottoponendo a pena l’immigrato per il solo fatto di esserlo illecitamente, o per il solo fatto di compiere atti diretti ad immigrare clandestinamente. Si tratterebbe di legislazione simbolica, che cioè agita spauracchi che non farebbero paura a nessuno. Si è del resto già da più parti sottolineato che nessuna remora potrebbe costituire l’idea di affrontare un carcere in Italia, ad esempio per chi − marocchino, egiziano, eritreo, tunisino, iracheno − lo debba temere o lo abbia già subìto nel proprio Paese da cui fugge, o lì possa morire di guerra o di fame.
Questa osservazione ci avvicina alle ragioni “di principio”: si può osservare che la pena in tanto è giustificata − e legittimabile davanti alla nostra Costituzione − in quanto fondata sulla possibilità e legittimità di un rimprovero; che essa deve recare comunque in sé la prospettiva di una rieducazione/risocializzazione. Ora, quale rimprovero può essere seriamente mosso nei confronti di un disperato che fa ingresso sul territorio? (ché se si tratti di delinquente, abbiamo detto che vi sono già gli strumenti per affrontare e sanzionare questa situazione); o quale rieducazione è prospettabile nei confronti di individui che fuggono dalle discariche della globalizzazione, sans papier, esclusi, reietti, «caduti fuori bordo»? La pena finirebbe col girare a vuoto, e proprio per questo non servirebbe neppure a lenire il bisogno di sicurezza dei cittadini.
Qualche politico ha detto che il diritto penale servirebbe come coazione psicologica, controspinta all’azione; argomento, questo, che presume di cavar mirabilie dal diritto penale: è forse realistico attendersi qualche effetto motivante da simil “coazione”? su chi? forse sul migrante afghano costretto ad arruolarsi nell’esercito talebano con angherie e sevizie, che viene fortunosamente liberato e fugge passando per il Baluchistan la Turchia l’Albania stivato in un camion con altri disperati ai limiti della sopravvivenza? (storia vera: cfr. Becucci, Criminalità multietnica. I mercati illegali in Italia, Laterza, 2006, 13 s.). Strologare di nuovi reati come controspinta al delitto è in questi casi, a voler concedere la buona fede, fare un’ingenua caricatura delle funzioni del sistema penale o, peggio, inscenare una farsa per girare la faccia a fronte dei veri problemi.
Ancora, quale coerente politica criminale si persegue con simili progetti? Non sarebbe forse schizofrenico un sistema che ha carceri tanto piene da doverle periodicamente alleggerire con provvedimenti di clemenza, e prospetti di riempirle con centinaia di migliaia di clandestini (più di centomila quelli accertati, più di 650 mila quelli stimati)? Costruire nuovi stabilimenti di pena? Non val la pena investire le immense risorse economiche che vi sarebbero destinate, verso politiche sociali diverse, e volte all’inclusione (lo sollecita anche la Comunità Europea)?
Chi abbia letto I Promessi Sposi − almeno in estratto, in epitome, in volgarizzazione ad uso scolastico − ricorderà certo la storia ilare d’una pia illusione cinque/seicentesca, quella di eliminare la piaga dei “bravi” dal territorio milanese, con ripetute “gride” ognora più agguerrite e aggressive e piene di severissime (e inutili) comminazioni; dopo l’ennesima delle quali «c’era de’ bravi tuttavia». Chi ricordi quella storia, immaginerebbe mai che essa si potrebbe replicare nell’Italia del Ventunesimo Secolo? La storia si ripete, e sembra una farsa; ma nessuno ha più voglia di ridere, né di farsi prendere in giro: perché “ci sono clandestini tuttavia”.