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Con la definitiva approvazione del ddl sulla sicurezza, avvenuta il 02/07/2009 al Senato, il Governo realizza il tassello, forse, più importante della propria linea politica sull’immigrazione. Linea promossa in tutte le campagne elettorali degli ultimi venti anni e realizzata, mediante norme, non solo nell’ambito di questa legislatura, bensì anche nel corso della XIV (2001-2006).

La centralità di questo passaggio la si può rintracciare, quindi, nel raggiungimento di un obiettivo ritenuto, da molti anni, strategico da questa parte politica, ovvero l’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Si tratta, infatti, di una norma che era contenuta anche nel disegno di legge relativo alla l. n. 189/02, ma che venne successivamente soppressa in seguito all’infiammato dibattito pubblico e parlamentare (interno alla maggioranza) di quel periodo. Dibattito la cui incisività sembrava scaturire dalla circostanza che l’allora maggioranza di Governo risultava essere formata da diverse ed eterogenee componenti partitiche (Villa 2008a, pp. 140-142). Tuttavia, anche la circostanza odierna non sembra essere esente da incertezze interne circa la bontà e l’efficacia di questi dispositivi, considerato il ricorso al voto di fiducia.

Una volta presi in considerazione alcuni elementi riguardanti la dinamica politica di siffatto progetto, risulta utile apportare alcune specificazioni terminologiche circa la sostanza di un vocabolario, a mio avviso, eccessivamente  semplificatorio rispetto alla complessità del reale e alla dignità delle persone. Prima di tutto, sembra opportuno specificare che quando discutiamo di immigrazione clandestina, prendiamo in considerazione due facce della stessa medaglia, o meglio, due dimensioni distinte di questa realtà:

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     1. da un lato, abbiamo l’immigrato irregolare che è tale in quanto proviene da una situazione di regolarità. Si tratta di individui che risiedono da più o meno tempo sul territorio dello Stato italiano e che hanno quindi posseduto un documento di soggiorno (visto, permesso di soggiorno), oltre ad avere una precisa identità giuridica;
      2. dall’altro, invece, i più propriamente detti clandestini, in quanto attraversano i confini dello Stato non rispettando le procedure e i varchi di ingresso regolati dalla legge (molto spesso in assenza anche di un documento di identità).
 

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Tutto questo, non per procedere ad una, quanto mai deprecabile, distinzione tra specificità esistenziali, bensì per prendere atto di situazioni giuridiche completamente diverse. Nel primo caso, siamo in presenza, di una fattispecie considerata dalla pubblicistica giuridica, a buon ragione, come irregolarità di natura amministrativa. In sostanza, un documento di soggiorno scaduto non dovrebbe dar luogo a sanzioni di natura penale. Nel secondo caso, invece, siamo effettivamente in presenza di una violazione più consistente, la cui peculiarità (giustappunto esistenziale) richiederebbe una riflessione ponderata ed una soluzione moralmente condivisa.

Il reato di immigrazione clandestina, dunque, insiste con eguale forza e determinazione su queste due tipologie. Nel particolare, l’articolo 16 del variegato pacchetto sicurezza approvato integra il testo unico della disciplina sull’immigrazione (d. lgs. n. 286/98 succ. mod. l. n. 189/02) introducendo, oltre alla rilevanza penale, un’ammenda che varia da un minimo di 5.000 ad un massimo di 10.000 euro e l’espulsione immediata. Quest’ultima, qualora non immediatamente eseguibile, sarebbe mediata dalla detenzione fino a sei mesi in un Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Tale rilevanza penale inficia, altresì, ex lege n. 189/02, sulla possibilità per lo straniero di rientrare regolarmente sul territorio dello Stato, andando incontro quindi ad un respingimento alla frontiera anche in presenza della documentazione richiesta.

Dopo alcune sintetiche considerazioni sulla dinamica giuridica, sembra opportuno prendere in considerazione quali possibili effetti produce tale reato sulle persone in carne ed ossa, trascurando, per brevità del testo, quella che dovrebbe essere la misura di tali provvedimenti in rapporto alla concezione che abbiamo o dovremmo avere della società e delle sue regole. Per questi ultimi aspetti morali dovrebbero valere le risposte di ogni singola coscienza, prima ancora di una proficua interazione.

Così, questo sembra essere il quadro in cui, tanto l’impoverimento concettuale riferito alle molteplici fattispecie che la circolazione degli stranieri extracomunitari pone in essere, quanto la generica impostazione delle politiche migratorie quale problema della sicurezza sociale  contribuiranno a produrre effetti non voluti, ossia controproduttivi rispetto alle finalità preposte; oltre che, quantomai, lesivi della dignità della persona umana e dei diritti ad essa connessi. Si auspica e si dichiara che questo provvedimento contribuirà a diminuire il degrado e l’insicurezza diffusa. Come se, per gli illeciti penalmente perseguibili, ancora non esistessero apposite norme e sanzioni che lo Stato ha il dovere di far rispettare ed applicare.

Pertanto, non si prende in considerazione che tale istituto, genericamente applicato, colpirà inesorabilmente tanto il lavoratore extracomunitario in possesso di un regolare contratto-permesso di soggiorno che in un contesto di crisi, perdendo il posto, diventerà criminale al termine dei sei mesi previsti di diritto di iscrizione nelle liste di disoccupazione (precedentemente alla l. n. 189/02 erano dodici i mesi), quanto il lavoratore domestico, l’infermiera o il lavoratore del commercio e dell’agricoltura che ancora, per un motivo o per un altro, non sono riusciti ad accedere alle quote annuali dei decreti flussi. Questi saranno parificati, con l’autorità della legge, al tipo ideale dello spacciatore di strada e del rapinatore (quando, poi, la maggior parte di questi reati minori sembra essere commessa dagli stranieri cosiddetti comunitari, per i quali vige la libera circolazione).

Ancora una volta, è opportuno e doveroso registrare una concezione del diritto, intesa quale strumento per il perseguimento di fini esteriori al valore della vita umana. Fini che, molto spesso mal argomentati, finiscono per disegnare i contorni di nuove ideologie, in combinato disposto ad una concezione del potere che, parafrasando Ralph Dahrendorf, si caratterizza per «la capacità di far fare agli altri quello che si vuole», cioè la capacità di persuadere. In questo quadro, il consenso sulle norme è solo una conseguenza successiva, e non un presupposto. Il valore – fondamentale in democrazia – della interazione nella differenza, intesa quale luogo della produzione di significati condivisi, viene, dunque, a mancare (cfr. Villa, Lo statista e l’agire politico, Benecomune.net, 27/10/2008).

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