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In Italia – non diversamente da quanto avviene in realtà europee più avanzate sotto il profilo del multiculturalismo – i diritti civili e politici degli stranieri sono disciplinati in modo differente rispetto a quelli di cui godono i cittadini italiani.

L’esercizio del diritto di voto per le elezioni politiche è, ad esempio, una di quelle prerogative espressamente legate alla cittadinanza. Si tratta, nel caso italiano, di un principio affermato dallo stesso dettato costituzionale.

L’acquisizione della cittadinanza da parte di uno straniero determina, in termini legali, il compiuto superamento di una condizione di ‘alterità’. Ciò peraltro, non implica che questo superamento rappresenti la meta agognata per la generalità degli immigrati. Il desiderio di conservare un legame – giuridico oltre che relazionale – con il proprio Paese di origine è forte soprattutto in quei Paesi, come ad esempio la Germania, che non ammettono la doppia cittadinanza.

La normativa che regola la materia in Italia (legge 91 del 1992) ammette la doppia cittadinanza ma innalza i tempi per la naturalizzazione (acquisizione della cittadinanza per residenza) rispetto alle precedenti disposizioni. L’ Italia – come la Spagna – richiede dieci anni di residenza continuativa per divenire cittadini tramite naturalizzazione. I tempi per l’accettazione della richiesta possono eccedere i due anni e sull’intera procedura gravano forti elementi di discrezionalità da parte delle autorità – l’ottenimento della cittadinanza si configura infatti, anche giuridicamente, come una ‘concessione’, piuttosto che un diritto subordinato al possesso di determinati requisiti.

Il nostro Paese costituisce, nell’ambito dei principali Stati europei, il fanalino di coda per quanto riguarda le naturalizzazioni: sono state 19.000 l’anno scorso, a fronte delle 125.000 di un Paese come la Germania, tradizionalmente riluttante a trasformare i propri immigrati in cittadini.

Una normativa più aperta in materia è auspicabile anche nell’interesse di quelle seconde generazioni di immigrati che continuano ad essere giuridicamente quasi “invisibili”, a dispetto della loro crescente presenza e radicamento nel Paese.

Al di là dell’importante tema della cittadinanza, in Italia il diritto dello straniero a partecipare alla vita politica locale non è affatto escluso a livello giurisprudenziale, ma è previsto espressamente sul piano legislativo soltanto nel caso dei cittadini comunitari, in recepimento delle direttive europee in materia. Per quanto attiene ai cittadini extracomunitari, il tema risulta politicamente controverso; fatto, questo, testimoniato nel corso del precedente governo di centro-destra dal ricorso presentato dall’esecutivo contro l’iniziativa di alcuni comuni liguri e toscani di conferire ai cittadini extracomunitari residenti in loco il diritto di voto per le elezioni amministrative

Come abbastanza noto, nella nostra legislazione sull’immigrazione è previsto che allo straniero residente da almeno cinque anni in Italia, possa essere rilasciata una carta di soggiorno (permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo) la quale conferisce una serie di diritti supplementari rispetto a quelli previsti per il ‘semplice’ straniero regolarmente soggiornante. Meno noto è che tale documento conferisca – almeno sul piano delle enunciazioni – il diritto dei cittadini stranieri a partecipare alla vita politica locale. Questa dichiarazione di principio non è supportata da un provvedimento legislativo in materia e, in questa situazione di vacatio legis, l’iniziativa è passata essenzialmente nelle mani delle amministrazioni locali.

La maggior parte delle amministrazioni locale, in assenza di adeguati strumenti legislativi, non ha affrontato la materia con provvedimentispecifici. L’esperimento forse più ‘avanzato’ effettivamente promosso per garantire la partecipazione politica dei cittadini extracomunitari – mi riferisco all’elezione di consiglieri aggiunti presso i municipi e il comune di Roma – si è rivelata un’esperienza piuttosto fallimentare, come testimonia la scarsa partecipazione all’evento. La creazione di consiglieri ad hoc per immigrati, privi di poteri decisionali e relegati a una funzione consultiva – e di fatto spesso meramente esornativa – propone una logica di ‘separatezza’ degli immigrati che tende a perpetuare un modello di integrazione subalterna.

Il problema della scarsa partecipazione tende però a proporsi anche nel caso di chi proviene da Paesi neocomunitari come Romania e Polonia. I cittadini neocomunitari, dal momento in cui dispongono della residenza in Italia, si vedono riconosciuto il diritto di concorrere alla vita politica locale allo stesso titolo previsto per i cittadini italiani, in termini di elettorato sia attivo sia passivo. Tale diritto è però assai poco conosciuto e ancor meno utilizzato.

Questa forma di ‘apatia’ ha varie ragioni: poca informazione in merito ai propri diritti, scarsa propensione associativa in comunità importanti come quella romena e, non da ultimo, il carattere temporaneo che la grande maggioranza dei neocomunitari attribuisce alla propria esperienza migratoria, fattore che evidentemente non favorisce il radicamento nella vita politica e sociale del nostro Paese. Insieme a tutti questi elementi, tuttavia, viene chiamata in causa anche la scarsa capacità finora emersa in Italia di elaborare un modello di inclusione sociale degli immigrati che superi lo stato presente delle cose. Il modello attuale di integrazione è focalizzato quasi esclusivamente sull’inserimento subalterno degli immigrati nel mercato del lavoro; occorre essere in grado di superare questa impostazione, proponendo adeguati incentivi per promuovere un ruolo attivo e partecipe degli stranieri nella società italiana, a vari livelli.

rn

 
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