Per questo ogni soluzione al problema che punta all’aumento della produzione o della produttività ma non determina un aumento degli introiti dell’anello più debole della catena produttiva non risolve affatto il problema.
Dal recente vertice della FAO sul problema della fame del mondo emerge un dato singolare che conferma questo assunto. Le vittime della nuova crisi alimentare derivante dall’impennata improvvisa dei prezzi alimentari, quel miliardo e più di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno in parità di potere d’acquisto, sono per il 50 percento agricoltori (e dunque coloro che dovrebbero massimamente beneficiare dell’impennata dei prezzi)! In questi giorni si fa un gran parlare di necessità di aumentare le rese, di introdurre nuove sementi e aumentare la produttività delle tecniche utilizzate per la produzione. Tutto questo è certamente importante ma se il vero problema della povertà fosse stato quello dell’offerta insufficiente di derrate agricole o dello scarso tasso d’innovazione tecnologica le varie “rivoluzioni verdi”che si sono succedute a partire dagli anni ’60 avrebbero risolto il problema.
Chi ha una minima conoscenza di come funzionano le filiere agricole sa benissimo che, fatto 100 il valore del prodotto finale venduto al consumatore, i produttori della materia prima (le fave di cacao, i raccolti di caffè) sono in grado di appropriarsi di non più del 5 o 10 percento di questo valore. Il resto è appannaggio di tutti gli altri attori della filiera, tra i quali gli intermediari che acquistano il prodotto dai produttori primari (spesso coltivatori che vivono lontano dalla costa e dai mercati di sbocco), gli importatori, i dettaglianti finali. Gli intermediari locali hanno spesso un tale potere contrattuale da riuscire a sfruttare a loro vantaggio l’ignoranza delle dinamiche dei prezzi dei piccoli produttori isolati riducendo i potenziali vantaggi nelle fasi di crescita dei prezzi.
Una parte molto importante del valore, attorno al 20 percento, va infine a chi trasforma la materia prima (i raffinatori dello zucchero, i tostatori del caffè, ecc.). L’incapacità dei produttori primari marginalizzati di risalire questa filiera appropriandosi delle parti che generano maggior valore (la trasformazione del prodotto, l’intermediazione e l’esport sui mercati di sbocco internazionali) alimentata in parte rilevante dalla presenza di dazi “a scalare” che penalizzano di più chi esporta il prodotto lavorato o semilavorato rispetto alla materia prima, sono la causa principale delle perduranti condizioni di povertà.
Proviamo ad immaginare cosa potrebbe succedere con l’innovazione tecnologica o con l’utilizzo di nuove sementi in grado di aumentare la resa produttiva. Le nuove sementi “tecnologicamente avanzate” molto spesso non sono “beni pubblici” disponibili gratuitamente a tutti e le imprese che le producono le vendono a prezzi elevati ai produttori primari. L’aumento di produttività può dunque essere vanificato da un aumento dei costi della materia prima (prima gratuita) generando spirali d’indebitamento ed impedendo la generazione di circuiti virtuosi. Il problema per i produttori non proprietari ma affittuari e per i salariati stagionali che lavorano in queste filiere è ancora più grave. In tali casi infatti la debolezza è maggiore se, come ben noto, aumenti di produttività si traducono in aumenti di valore dei terreni beneficiando i proprietari e non i coltivatori.
Gli studi sul campo più recenti concordano sul fatto che il problema della povertà non è un problema di prezzi o di quantità prodotte, ma bensì un problema di basso potere contrattuale e di vulnerabilità al rischio. Per questo motivo i casi di successo sono quelli in cui i produttori isolati si organizzano in associazioni o cooperative e riescono a fissare con gli intermediari rapporti di forza diversi. In molti casi poi, la nascita degli intermediari equosolidali ha modificato sostanzialmente la situazione. I nuovi intermediari, facendo leva sulla disponibilità a pagare dei consumatori per prodotti con contenuti di responsabilità sociale ed ambientale, hanno offerto condizioni contrattuali migliori (anticipi di pagamento, prefinanziamenti, accordi di lungo periodo con assicurazioni contro i crolli dei prezzi, ecc.). e hanno investito nel rafforzamento delle capacità produttive locali. Il loro successo (nel 2007 le vendite annue dei prodotti equosolidali sono aumentate di più del 100 percento in valore e in prezzi irrobustendo un trend che segna tassi di crescita annui superiori al 40 percento negli ultimi sei anni) ha spinto molti attori tradizionali del mercato ad imitare questo percorso (è di pochi mesi fa l’annuncio di una delle maggiori catene di supermercati inglesi Sainsbury di riconversione al 100 percento alla filiera equosolidale per alcuni dei suoi prodotti “coloniali”).
Se vogliamo risolvere questo problema è dunque necessaria una rivoluzione rispetto a schemi di aiuto allo sviluppo tradizionali come quelli che utilizzano i soldi degli aiuti pubblici per acquistare le eccedenze alimentari nei nostri paesi e distribuire gratis derrate alle popolazioni nelle zone di crisi mettendo in ginocchio le economie locali (distribuzione gratis di cibo vuol dire concorrenza insostenibile a costo zero per chi produce prodotti agricoli in zone limitrofe).
La FAO ha recentemente mosso un passo interessante in tale direzione pubblicando un manuale di semplice consultazione per i produttori nel quale si illustrano i passi necessari per “accrescere il proprio valore aggiunto e potere contrattuale” scegliendo una tra le diverse possibili certificazioni oggi disponibili sul mercato (denominazione geografica, bio, equosolidale, ecc.).
Il paradosso di questi ultimi decenni è che l’alleanza di mercato tra consumatori e imprese responsabili (in prima linea i microcrediti e gli importatori equosolidali seguiti ed imitati poi da molti attori tradizionali) sta svolgendo azione di supplenza in mancanza di regole ed istituzioni che promuovano in modo efficace la lotta alla povertà. Il voto col portafoglio dei cittadini responsabili sta dando nuova dignità e funzioni al mercato (che tradizionalmente non era in grado di intervenire sui problemi distributivi) svolgendo un ruolo di antitrust nelle filiere internazionali del prodotto. Se le istituzioni e le autorità internazionali riunite a Roma capissero questo e sapessero agire sempre più in sinergia con la società civile e il mondo delle imprese saremmo già a metà dell’opera.
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